Nei giorni scorsi Milo Rau ha presentato alle Giornate degli autori della 77esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia il suo ultimo lavoro; ed è difficile definirlo ‘solo’ cinematografico, perché The New Gospel è trasposizione del Vangelo sullo schermo ma è anche azione teatrale e documentario. Nel 2020 il Vangelo torna, dunque, nei cinema, con una pellicola che si inserisce inevitabilmente nel solco del ‘modello’ pasoliniano, tanto dal punto di vista formale quanto da quello contenutistico, ma che trova nel contemporaneo la sua più stringente ragion d’essere. È solo con l’arrivo a Matera, infatti, dopo aver attraversato le campagne lucane, che Rau deve aver individuato la chiave del suo lavoro: Cristo oggi ha attraversato il deserto e il mare; d’estate raccoglie pomodori tutto il giorno nei campi del Sud Italia e d’inverno, senza lavoro, aspetta l’arrivo della prossima estate. Cristo oggi è Yvan Sagnet, attivista nato in Camerun nel 1985, dal 2008 in Italia e da anni a capo delle battaglie contro il caporalato e lo sfruttamento dei lavoratori agricoli. Lui stesso ha lavorato nei campi pugliesi per pagarsi gli studi a Torino e da lì ha avuto inizio il suo impegno politico. Oggi guida le lotte di chi tiene in piedi la produzione agricola italiana ma è senza documenti, senza casa, senza un lavoro tutelato e degnamente retribuito. Per lui e per gli altri come lui, oggi Cristo scenderebbe in piazza: Rau, che sceglie di leggere il Vangelo come una storia di rivoluzione sociale, trasforma la preghiera in una manifestazione.

foto @Armin Smailovic

A partire da questo presupposto e in maniera naturalissima, il regista porta quindi la Palestina e l’Africa subsahariana in Basilicata. Come di consueto, poi, al cortocircuito tematico si affianca un’ulteriore stratificazione di riferimenti: Il Vangelo secondo Matteo di Pasolini, si diceva, offre le scene da ricalcare, i ritmi da tenere e anche le sequenze da riproporre citate. Ma è chiaro anche il legame con un più ampio universo cinematografico dell’intellettuale friulano: La ricotta, per esempio, guida, secondo un meccanismo da sempre caro anche al regista svizzero, il continuo sdoppiamento tra set e ripresa del set, tra film e film in fieri, tra il Vangelo di ieri e la possibilità di un Vangelo di oggi.

È qui il primo scarto con il lavoro di Pasolini: a impersonare Cristo non è un sindacalista spagnolo che per qualche mese diventa attore, come ne Il Vangelo secondo Matteo; a morire sulla croce non è una comparsa affamata, come ne La ricotta; con Milo Rau, Cristo è e fa per davvero il sindacalista. Il secondo scarto, poi, è innegabilmente una questione di colore, perché per una deformazione relativamente recente siamo abituati a pensare Cristo, Maria e gli apostoli come donne e uomini bianchi. L’arte del Rinascimento europeo ci ha fatto dimenticare che a Betlemme non si nasce color del latte, ma «color del grano» (in greco sitochroos: il rimando qui è a Michele Bacci, The Many Faces of Christ: Portraying the Holy in the East and West, 300 to 1300, Reaktion Books, 2014, p. 86); eppure, c’è stato un tempo in cui artisti e commentatori di testi sacri meditavano a lungo su come rappresentare la pelle di Gesù.

foto @Thomas Eirich-Schneider

A scene alterne, allora, Sagnet è in piazza e viene battezzato; parla di diritto all’abitazione e difende l’adultera. Nelle prove delle scene evangeliche ha un aiuto d’eccezione: Enrique Irazoqui, il Cristo pasoliniano — scomparso pochi giorni fa — tornato a Matera per impersonare il Battista ma anche per dare dritte di recitazione al nuovo Gesù. Ad affiancarlo c’è poi Maia Morgenstern — Maria ne La Passione di Cristo di Mel Gibson, girata proprio a Matera nel 2004, e protagonista dello spettacolo Empire di Rau — a reinterpretare il ruolo già svolto nella pellicola statunitense.
Al centro del lavoro sta, come sempre in Rau, la compenetrazione mai scissa tra film/fiction e realtà/non fiction: le manifestazioni della scorsa estate, quando nelle campagne e nel centro di Matera i braccianti protestavano per le proprie condizioni disumane, non solo sono state filmate dal regista, ma sono anche state immaginate come vere e proprie azioni teatrali, messe in scena lì dove il teatro non c’è, per coinvolgere un “pubblico-cittadinanza” che assiste e partecipa. Così noi, seduti al cinema, vediamo Sagnet che incita alla lotta e i braccianti che manifestano, ma anche cittadini e turisti che capitano lì (per caso?): qualcuno si unisce al corteo, qualcuno invece si ferma e a sua volta filma col cellulare. Allo stesso modo viene girata la via Crucis, senza troppe distinzioni tra attori e spettatori. Addirittura assistiamo anche ai provini per i non professionisti che saranno coinvolti nel film: le speranze dei cittadini ambiziosi di apparire sullo schermo diventano materiale di lavoro.

Così, le rallentate e liriche sequenze evangeliche si alternano a potenti momenti di realtà, davanti ai quali si fatica a immaginare uno spettatore indifferente. La forte carica politica si svela in modo inequivocabile proprio durante una di quelle mattine di manifestazioni. Durante le riprese il sindacalista Gianni Fabbris, da anni impegnato nella provincia di Matera per un nuovo modello di coltivazione e distribuzione dei prodotti agricoli, sbotta in un «Noi non siamo un film»: in modo autentico e pure un po’ arrabbiato Fabbris rivela la chiave di questo e di tutto il lavoro di Rau. Sullo schermo – e con tutti i crismi dello schermo – arrivano le lotte reali. Rau, l’artista e l’intellettuale venuto a filmare le proteste della campagna, e che pure da parte di quelle proteste si schiera, davanti alla frustrazione reale di Fabbris non può che allargare le braccia, rimanere senza parole e accettare la propria parte: la forza del suo film sta nel coraggio di dichiarare continuamente la realtà al punto da includervi se stesso, dunque la propria posizione privilegiata; ma anche al punto da ambire a far fare questo stesso percorso di autocoscienza a chiunque guardi il suo film.

foto @Maurizio Di Zio

Un piccolo appunto: ci sono poche donne nel film. Compaiono infatti solo in una breve scena, quando la troupe porta coperte e biancheria a chi è costretta alla prostituzione. Se è vero che l’organizzazione della lotta è un affare lasciato in gran parte agli uomini e che Rau ha filmato le manifestazioni così come avvenivano, è anche vero che la presenza delle donne nei campi è tutt’altro che trascurabile (come chiaro dai quattro Rapporti Agromafie e Caporalato stilati dall’Osservatorio Placido Rizzotto negli ultimi otto anni). Insomma, una lente così focalizzata sul momento della contestazione rischia di lasciare sommerso il lavoro femminile, su cui forse si poteva fare più luce senza forzare in alcun modo la realtà – anzi essendole più fedele. Chissà che un domani il Vangelo non torni nei cinema con una donna nel ruolo di Cristo…

Mentre sullo sfondo appaiono i sassi e torna alla mente il Carlo Levi delle «case, se quelle così si possono chiamare», il nostro orecchio europeo riconosce l’italiano, l’inglese e il francese, e sente la voce di Vinicio Capossela che canta «questa terra è stata fatta per me e per te». Eppure, chissà quante parole ci sono sfuggite nella Babele di questo nuovo Vangelo, perché non conosciamo le lingue di chi arriva, né le sfaccettature dei loro pensieri. Infine Sagnet spira sulla croce e scorrono i titoli di coda: sul video i braccianti coinvolti nel film sono filmati nelle pause dalle riprese, nella ripresa della realtà, mentre pregano inginocchiandosi verso La Mecca.

Virginia Magnaghi


The New Gospel | Das neue Evangelium
di Milo Rau
con Yvan Sagnet, Maia Morgenstern, Enrique Irazoqui, Marcello Fonte
produzione Fruitmarket Kultur und Medien, Langfilm, IIPM International Institute of Political Murder, SRF – Schweizer Radio und Fernsehen, Zweites Deutsches Fernsehen (ZDF)
visto al Cinema Rossini di Venezia il 7 settembre 2020 in occasione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica