È il 13 marzo, l’inverno comincia ad allentare la presa, ma senza fretta. Tiago Rodrigues ci aspetta alle 10:30 in una bella sala della Triennale di Milano per una masterclass. Ad ascoltarlo, una trentina di persone, per lo più trentenni: attrici, studiosi, registe, appassionati, eccetera. Una sessantina di occhi vispi aspettano le prime parole di quella che sta diventando una figura di riferimento per il panorama teatrale europeo. Ci troviamo davanti un uomo dall’aspetto simpatico e intelligente: maglioncino con le maniche tirate su, occhiali con la montatura spessa, capelli castani e barba, gesticolazione efficace, a prova di sonno.
L’esordio dell’incontro ci riporta subito a By Heart, il primo dei due lavori presentati a Milano (il secondo Sopro, lo aspettiamo stasera): «Non voglio fare una lezione, fatemi delle domande e cominciamo a dialogare». Cosa c’entra By Heart? Certamente lo spettacolo rompe la verticalità e la tradizionale quarta parete in favore di un dialogo fra performer e pubblico molto diretto. L’ironia e la furbizia con cui Rodrigues, nei panni di se stesso, pronuncia la frase «lo spettacolo non comincia se non salgono in scena dieci volontari» è la stessa – certo, nel piccolo – con cui il regista portoghese rinuncia allo schema classico della masterclass.
Si tratta di dettagli, forse. Eppure tutto negli spettacoli e nei modi di Rodrigues sembra orientato a una semplicità disarmante. In verità quest’ultima nasconde un lavoro complesso e articolato, ma soprattutto l’idea di una libertà artistica totale.
Libero da cosa? Anzitutto dalla dicotomia realtà/finzione. Non è mai chiaro quando cominci l’una o dove finisca l’altra in By Heart, un monologo sull’essenzialità del ricordare che coinvolge dieci persone del pubblico facendo loro imparare a memoria un sonetto di Shakespeare. «In By Heart ci sono tre livelli di narrazione: la mia vicenda personale, la storia del mondo dalla parte degli scrittori [da George Steiner a Ray Bradbury, da Boris Pasternak a Nadežda Mandel’štam], il presente della performance con il pubblico». In nessuno di questi livelli è perfettamente distinguibile il rapporto realtà/finzione. Non per un vezzo registico, ma semplicemente perché «a volte la finzione lavora meglio della realtà non manipolata, e viceversa». Che importa allora se il sonetto shakespeariano recitato a memoria da Pasternak non sia proprio il trentesimo? Se la nonna di Rodrigues gli abbia chiesto un libro da imparare non immediatamente dopo aver appreso dell’imminente cecità? Se alcune reazioni dei partecipanti sono state prontamente studiate e previste dal performer in scena?
La stessa libertà la si ritrova nel lavoro di Rodrigues con gli attori: «l’obiettivo è dare loro quello che chiedono non come attori ma come esseri umani. Non esiste uno standard attoriale, semmai esso è il prodotto di una convenzione di matrice ottocentesca. Per quanto mi riguarda, questo dispositivo attoriale tradizionale oggi può essere solo uno strumento, ma mai l’obiettivo: non si deve mai mostrare una convenzione a teatro».
Questa fuga da retoriche e costrizioni è direttamente proporzionale alla consapevolezza dell’artista e all’ampiezza della sua prospettiva sul mondo. Allo stesso tempo, però, essa non deve prescindere dai gusti personali: «sono allergico al teatro partecipativo: non è che non mi piaccia. È come le persone che sono allergiche al glutine. Magari vorrebbero, ma non possono». Per la verità, questa battuta sul teatro partecipato apre uno spunto di riflessione importante: il regista portoghese si allontana da una certa tendenza del teatro contemporaneo, quella cioè che associa partecipazione a impegno politico. Perché «il teatro è sempre partecipativo: anche quando non sembra crea una comunità che interagisce e rischia assieme agli attori». Insomma, l’arte non può guardare una sola dimensione del mondo. «La società non deve dire all’artista cosa deve fare. Se ci fosse uno striscione sulla facciata di ogni teatro dovrebbe recitare: “libertà artistica”».
Ancora una volta, libertà. La stessa che infastidisce chiunque tenti di dare una definizione stringente al teatro di Tiago Rodrigues. Più lo ascoltiamo e più è chiaro: «nonostante io permetta di scrivere queste parole sulle locandine dei miei spettacoli, io rifiuto la divisione fra “drammatico” e “post-drammatico”. Potrei dire che vengo dal post-drammatico e torno indietro al drammatico. L’arte secondo me vive sempre nel mezzo di questi confini. Perciò penso che chi fa teatro deve sapere mischiare i codici e non preoccuparsi troppo del tipo di teatro che fa. Io devo essere in grado di padroneggiare quanti più strumenti possibili, ma devo anche sapermene liberare, non rimanerci invischiato, saper mollare la presa».
È proprio questa vivace dialettica fra codici a rendere unico il teatro di Rodrigues. A pensarci bene, l’ossatura dei due spettacoli presentati in Triennale è classica, “drammatica”, ma si serve di elementi “post-drammatici” e performativi per completare, anzi per far volare la messa in scena: By Heart è un monologo che si conclude con un passaggio di consegne, dieci persone che imparano e ripetono un sonetto aiutati dal performer; Sopro è la storia di una suggeritrice che inizia a lavorare in un teatro nazionale e cresce assieme alla comunità teatrale, ma solo alla fine la “vera” suggeritrice (e non una dei suoi alter ego di scena) smette di sussurrare le battute che mandano avanti lo spettacolo e parla ad alta voce. Assegnando il salto, l’intersezione più potente tra finzione e realtà al finale degli spettacoli, Rodrigues riesce a mantenere in corso d’opera un equilibrio, una continuità bilanciata fra piani, codici, dimensioni. È un salto controllato, misurato, ben congeniato anzitutto. Ancora una volta, questa continuità appare così libera perché ha al suo servizio un lavoro artistico di raccordo consapevole e maturo, che non mette in mostra tecnicismi: al contrario tende a nascondersi, in favore di una naturalezza affabile e avvolgente.
L’incontro è generoso e le chiacchiere potrebbero continuare all’infinito. Si chiude sul tema dell’istituzione teatrale e il direttore artistico del Teatro Nacional D. Maria II di Lisbona esprime un pensiero ancora una volta lucidamente libero: «le istituzioni devono essere plurali e inclusive, dando spazio alla diversità artistica. Oggi va molto di moda, nelle direzioni artistiche, assumere uno sguardo “paneuropeo”, eppure occorre guardare anche alle esigenze del territorio di riferimento dei teatri. Per allargare gli orizzonti oltre i confini nazionali dobbiamo prima guardare i problemi diffusi nelle strade accanto al nostro teatro. Non a caso la mia generazione non si oppone più alle istituzioni, non le vede più in quanto specchio del regime, non c’è più quell’opposizione politicizzata che aveva la generazione precedente: io non penso più che mi sto vendendo se accetto di dirigere un teatro nazionale, penso ad accettare la sfida. Qual è questa sfida per me? Normalizzare la diversità e l’inclusione, senza bisogno di sottolinearlo su manifesti e locandine. Normalizzare la libertà artistica. Che non vuol dire aprire a qualsiasi cosa, o peggio farlo perché risponderebbe a una certa tendenza, a una moda artistica, ma guardare al contatto fra gli spettacoli e la realtà in cui è calata l’istituzione teatrale».
Non c’è niente da fare, non rileviamo la minima sbavatura, il ragionamento non fa una piega: non riusciremo mai a far entrare Tiago Rodrigues in una casella specifica, in una categoria stringente. Sia da regista, sia da performer, sia da direttore artistico l’unica direzione possibile, l’unica cifra per lui è sempre e soltanto la libertà.
Riccardo Corcione