di Amir Reza Koohestani/Mehr Theatre Group
visto al Crt Teatro dell’Arte di Milano_12-13 maggio 2017

Era il 2001, quando il ventiduenne iraniano Amir Reza Koohestani si affermava, giovanissimo, sulla scena internazionale con lo spettacolo Dance on Glasses. La fine di una storia d’amore tra Foroud, giovane maestro di danza, e Shiva, sua allieva e musa, veniva affrontata in un dialogo, finestra verbale su una vicenda privata e universale che, allo stesso tempo, faceva da specchio alla situazione politica e sociale dell’Iran. A distanza di più di dieci anni, Koohestani, invitato a riprendere in mano la produzione, riporta sul palcoscenico il suo spettacolo, ma lo trasforma in qualcosa di diverso: l’autore sceglie di mettere in scena il proprio sguardo sul passato e di fare dello spettacolo, così come fu allestito la prima volta, il punto di partenza per una nuova narrazione. Tra i due momenti (oggi e il 2001) vi è infatti un vuoto temporale incolmabile, già dichiarato (oltre che dal titolo) in incipit dall’autore, la cui voce fuori campo racconta, in una sorta di prologo, lo scarto di visione tra il prima e l’ora, introducendo una riflessione sulla sua autobiografia di artista.
Questa crepa temporale prende vita, sulla in scena e in modo concreto, nel vuoto che separa i due tavolini posizionati ai lati del palco ai quali sono seduti i due protagonisti. È la prospettiva stessa degli attori a sottolineare uno scarto rispetto al passato: a differenza di un tempo i due interpreti recitano ora rivolti verso la platea, non più uno di fronte all’altro ai capi di un unico lungo tavolo orizzontale, come testimoniano alle loro spalle le registrazioni video di Dance on Glasses. Ed è proprio con i loro giovani antesignani sullo schermo che i due protagonisti sono chiamati a dialogare in un gioco fatto di perfetti incastri drammaturgici. L’intelligente pretesto narrativo che innesca il nuovo incontro tra gli attori/personaggi e tutta la vicenda è la necessità di doppiare il DVD dello spettacolo, il cui audio è particolarmente danneggiato.


Foroud e Shiva faticano però a ripetere (letteralmente) il lavoro di un tempo: le voci non sono più le stesse, il parlato è fuori sincrono, le incursioni delle esperienze dei due (che scopriamo essere stati “realmente” innamorati) non permettono di proseguire il doppiaggio in modo lineare. Così, naturalmente e in maniera quasi impercettibile, lo spettatore entra a far parte di una dimensione a-temporale in cui il testo originale è del tutto inscindibile dalla realtà che gli attori raccontano dopo anni dall’ultima messa in scena. Anzi, la sensazione è quella che i due protagonisti siano sempre rimasti in un hic et nunc senza tempo, una dimensione parallela suggerita anche dal finale e dalla voce fuori campo dell’autore che chiude lo spettacolo.
Nella staticità vibrante e nel tono distaccato – e allo stesso tempo coinvolgentissimo – con cui i bravi Mohmmadhassan Madjooni e Mahin Sadri interpretano le battute, lo spettacolo si modula quasi come un’indagine filologica, districandosi cioè nel labirinto di possibili letture del testo originale e quindi nella storia personale e artistica del suo autore. Uno stream of consciousness in cui il ricordo riemerge come materia di lavoro e viene manipolato al fine di creare qualcosa di nuovo. Non è un caso infatti che l’operazione faccia esplicito riferimento alla catabasi di Orfeo. Come Orfeo si immerge negli inferi per recuperare l’amore perduto così Koohestani ripercorre, in un movimento concentrico, la sua storia cercando di riappropriarsene. Il finale del mito sancisce l’impossibilità di riportare in vita ciò che non c’è più, ma anche la possibilità di trasformare l’assenza in qualcosa d’altro: Orfeo, riemerso dagli inferi, viaggia e canta il suo dolore, metafora della poesia e della sua immortalità.

Camilla Lietti