Elisabetta Cantone_ redattrice di A critic mess!
Matan Zamir_ coreografo di To this purpose only
Cesare Benedetti_ danzatore di To this purpose only
ELISABETTA. Abbiamo assistito a uno spettacolo ricco e intenso, capace di stimolare diverse riflessioni. Qual è stata la genesi del percorso artistico che ha portato a questo prodotto?
CESARE. Noi di Fattoria Vittadini abbiamo incontrato i Matanicola – i due coreografi che hanno realizzato questo lavoro – per la prima volta a Berlino, nell’occasione del workshop “A Learning Process”, al quale alcuni di noi avevano preso parte.
MATAN. A proposito, come eravate venuti a conoscenza del laboratorio?
C. Ci è stato detto che eravate persone interessanti da conoscere, non ci siamo fatti scappare l’occasione. Durante il workshop infatti abbiamo subito percepito una connessione, un legame che ci ha spinti a invitare il duo a tenere lo stesso laboratorio a Milano. Chiamammo questo workshop “Intervention 1”.
M. Era tra 2011 e il 2012, giusto?
C. Esatto. Da quel momento abbiamo deciso di portare avanti insieme il processo di ricerca nato durante questi laboratori, seguendo sempre lo stesso schema: a partire da improvvisazioni siamo arrivati a costruire delle pieces specifiche per ogni festival a cui abbiamo partecipato, da Milano fino a Bordeaux.
E. L’idea di parlare dell’Italia di chi è stata? Di Fattoria Vittadini o dei Matanicola?
M. Io sono israeliano e nel 2010 ho realizzato uno spettacolo su Israele. Da questo punto di partenza io e Nicola – l’altro componente dei Matanicola – abbiamo deciso di tracciare intorno all’Italia una cornice simile. Nell’incontro con Fattoria Vittadini ho visto la possibilità di portare a compimento questa intuizione.
E. I cliché che avete deciso di portare in scena sono frutto della tua esperienza personale oppure sono idee che provengono dall’immaginario comunemente diffuso sull’Italia?
M. È di un insieme di entrambe le cose. Durante il workshop ho raccolto le idee e le proposte di Fattoria Vittadini, dando vita a un sistema di creazione fluido.
E. Una domanda per Cesare. Com’è stato per te, in quanto italiano, danzare sulle note dei preconcetti standardizzati che caratterizzano il nostro paese?
C. In realtà il lavoro non è nato dalla volontà di rappresentare dei cliché. Attraverso la connessione creatasi tra di noi e grazie all’uso di oggetti rappresentativi del nostro Paese, il prodotto di questo percorso è venuto delineandosi in modo spontaneo. Credo che trovarsi all’interno di uno stereotipo sia una buona prospettiva per cercare di comprendere a pieno il senso dell’esperienza. Tutto ciò permette di avere un doppio punto di vista, sia esterno che interno, capace di mostrare la ricchezza del modo di percepire l’Italia.
E. Il vostro reciproco cercarvi prosegue ormai da diversi anni. Che cosa vi unisce?
M. Dal momento in cui ci siamo incontrati abbiamo sentito subito una consonanza che si è rafforzata quando sono venuto a conoscenza della storia della compagnia, di come un gruppo di giovani danzatori, a partire dagli anni della scuola, abbia deciso di dare vita a un collettivo artistico.
E. Questo legame è veramente interessante. Lo spettacolo a cui abbiamo appena assistito si divide in tre quadri. Potete chiarirmi il significato dell’ultimo, che dà l’impressione di avere un impianto metafisico?
M. L’intenzione dell’ultimo atto è quella di mostrare il clash, la contraddizione che caratterizza l’Italia. Il riferimento al mondo della Chiesa è chiaro e allo stesso tempo era pressante il bisogno di porre luce sul lato opposto a esso, anche in riferimento ai contenuti veicolati dalla televisione. L’urgenza di porre in scena questo contrasto – rappresentato, da un lato, dalla leggera danza maschile e dall’altro dalla grottesca presenza delle danzatrici – vuole anche rivendicare l’importanza dei diritti femminili.
C. Esatto. Il nostro Paese ha sempre vissuto di questa opposizione che va a sfociare in una vera e propria contraddizione. La sacralità si scontra con la promiscuità e la volgarità, creando le due facce di una stessa medaglia. Ciò tuttavia non vuol dire necessariamente che un aspetto rappresenti il bene e uno il male. Ognuno può sentirsi rappresentato da entrambi questi lati: puoi aspirare al cielo e precipitare all’inferno allo stesso momento, come in un sogno senza tempo. L’idea è che, a conclusione di questa parte, l’intero spettacolo potrebbe avere di nuovo inizio, a partire proprio dal primo atto, che vuole riprodurre, attraverso i nostri corpi nudi, la potenza artistica della statuaria greco-romana.
M. Sì, è come se si chiudesse un cerchio.
E. Quale reazione vi aspettate dal pubblico? La vostra intenzione è quella di creare una sorta di shock?
M. No, quello che piuttosto cerchiamo di fare è di creare esperienze: non una, ma diverse nello stesso contesto, dando vita a differenti dialoghi con il pubblico. Quest’ultimo non si deve per forza riconoscere con quanto viene rappresentato. Ogni atto è capace di creare un tipo di relazione diverso.
E. Matan, per quale motivo hai deciso di utilizzare A Zacinto, quasi fosse una colonna sonora della terza parte dello spettacolo?
M. La scelta non è stata motivata da una volontà precisa, ho piuttosto apprezzato molto il suono prodotto da questo componimento. Simile alla canzone di Mina all’interno del secondo atto.
E. Qual è il momento dello spettacolo che senti più rappresentativo della tua personale esperienza italiana?
M. Questo lavoro si compone come un trittico: le differenti parti vanno a costruire un insieme coeso dal quale mi sento rappresentato.
C. Danzare in questo spettacolo è stata una bellissima esperienza. Tra l’altro è il primo lavoro in cui danziamo completamente nudi. È stato bello vedere come non fossimo colti da nessuna forma di imbarazzo, anzi, durante questo momento dello spettacolo ci capita di avvertire precisamente quello del pubblico. L’intento è quello di esibire una nudità estetica, senza alcuna volontà di provocazione.
M. Esatto. Il mio obiettivo è quello di evocare l’idea di bellezza, come nei bassorilievi caratteristici dell’arte antica. L’esordio dello spettacolo vede i danzatori vestiti di verde, bianco e rosso, i colori della bandiera italiana. Il successivo spogliarsi e mostrarsi apertamente al pubblico vuole creare un preciso sistema di comunicazione, come a dire: “eccoci, siamo noi”.
A cura di Elisabetta Cantone, Daniela Di Carlo e Vanja Vasiljevic.
To this purpose only
di Nicola Mascia, Matan Zamir – Matanicola
con Mattia Agatiello, Chiara Ameglio, Cesare Benedetti, Noemi Bresciani, Pieradolfo Ciulli, Maura Di Vietri
visto il 5 ottobre 2017_ Teatro Elfo Puccini nell’ambito della rassegna MilanOltre