C’era una volta la provincia italiana, fonte di ispirazione – si sa – di molta letteratura e cinematografia, dai romanzi di Silvia Ballestra ai film di Paolo Virzì, solo ad esempio. C’era una volta la generazione dei trentenni, che hanno studiato, anche provato a girare il mondo,  poi sono tornati nell’alveo rassicurante della piccola città natale, sia perché bisognosi di ritrovare le radici affettive, sia perché il mondo, fuori dalle mura medievali di una città di provincia unica al mondo, può essere davvero brutto. C’erano una volta, inoltre, le nevrosi, le difficoltà, i tic dovuti alla comunicazione in rete, che sembra abbattere tutti i muri e invece sortisce ad effetto una chiusura straniante in se stessi e l’angoscia di rapporti umani puramente virtuali. Livia Ferracchiati, nell’ambito di un progetto più ampio accolto da Antonio Latella nella Biennale di Teatro, ha scelto di indagare quest’universo con scrupolo documentario, attraverso una ricerca che ha come centro la propria città natale, Todi, ricerca condotta attraverso le interviste (un’ottantina) con i ‘tuderti’ (= abitanti di Todi) di ogni età. Ha portato questo lavoro in teatro, insieme alla dramaturg Greta Cappelletti, riducendolo a quattro voci esemplari: quattro trentenni un po’ cresciuti per vivere ancora come i ‘ragazzi del muretto’, serie di culto degli anni ’90, che bivaccano (forse solo perché in ferie) tra le scalinate del duomo e l’unico pub della città, l’Olandese volante – il cui nome, ahinoi, non richiama loro assolutamente nulla. Alla vivacità dialogica delle quattro voci, resa con brio e bravura da Caroline Baglioni,  Elisa Gabrielli, Stella Piccioni, Ludovico Röhl, si aggiunge come quinta voce in scena l’osservatore acuto (Michele Balducci), l’aedo dei nostri giorni, che li intervista e racconta lo svolgersi delle interviste con ricchezza di dettagli, coinvolgendo indirettamente il pubblico. La scenografia, che si illumina di un bianco accecante mentre parlano gli attori, allude alle metaforiche fessurazioni dei cretti bianchi del corregionale Alberto Burri.  Non manca però, a mo’ di intermezzo dei quadri dialogici,  lo scorrere dei video in retroscena, che interrompe la finzione teatrale per dare testimonianza documentaria delle reazioni degli intervistati, a volte sconcertanti, spesso ironiche o ingenue, a domande del tipo: “andreste mai via da Todi? Come si vive a Todi? Vi sentite giudicati a Todi?”.

Dal punto di vista teatrale, il risultato è un mix divertente e ritmato: i quattro protagonisti riproducono le dinamiche e il gergo di un’amicizia nata sui banchi di scuola e mai interrotta, i rapporti conflittuali con le famiglie, da cui comunque dipendono anche psicologicamente, le incertezze, le paure, i condizionamenti, la difficoltà di trasgredire tabù sociali e la necessità di adeguarsi a una vita scandita da tappe obbligate (fidanzarsi, sposarsi, riprodursi e poi morire). Ne vien fuori uno spaccato di noia provinciale, di mancanza di ambizioni o di ambizioni frustrate, uno studio psicologico su trentenni malati di infantilismo, ancora alle prese con la conquista della libertà interiore che si traduce, invero, almeno in questa pièce, nel non sposare il fidanzato storico, nel gestire liberamente la propria sessualità (etero e omo), addirittura nell’infrangere il tabù della verginità e nel volersi procurare un fidanzato ad ogni costo (il che, si sa ormai, con facebook è diventato più facile).

Chi scrive viene da una provincia più meridionale ed esteticamente forse meno nobile di Todi, ed ha decisamente qualche anno in più dei protagonisti della pièce e della regista, sebbene condivida con quest’ultima una formazione culturale affine (presso le denigrate, antiche,  Facoltà di Lettere). Chi scrive, dunque,  ha vissuto analoghe situazioni, ma in età adolescenziale e in un’epoca che non conosceva internet. E perciò, pur divertendosi e trovando teatralmente indovinato e molto piacevole questo spettacolo prodotto dal Teatro Stabile dell’Umbria, resta un po’ sconcertata dalla ripetitività nel tempo delle situazioni, e dal pensare che per un trentenne del 2017 costituisca ancora un problema vivere ‘liberamente’ (nel senso detto) davanti agli occhi dei bigotti e giudicanti concittadini. Ma sarà così, e sarà che in certe città di provincia il problema del lavoro, del crescere intellettualmente al di là della musica (vintage) ascoltata in youtube, del non umiliare la propria formazione universitaria alla ricerca di un lavoro qualsiasi, e anche del non dismettere quella curiosità che indurrebbe almeno a chiedersi che significa ‘L’Olandese volante’, passino decisamente in secondo piano rispetto a matrimoni, amanti e convivenze di ogni genere.

Livia Ferracchiati si conferma una tra le voci giovani più interessanti e vive della drammaturgia italiana (il suo testo Stabat mater ha vinto il premio Hystrio-Scritture di scena 2017). E questo spettacolo, che ha commoventemente concluso l’edizione 2017 di Tramedautore diretta da Benedetto Sicca, risulta davvero piacevole, ben costruito, semplice ma adeguato nella simbiosi tra voci attoriali e strumenti di scena. Il tema della provincia italiana, forse, non è proprio il più adatto per il suo talento e forse per rendere piena giustizia a questo pezzo bisogna vederlo insieme agli altri della Trilogia sull’Identità, di cui fa parte. Tuttavia: se Todi is a small town in the center of Italy, unica e preziosa, il mondo e i sogni dei trentenni d’oggi – ne siamo sicuri – sapranno superarne con slancio le antiche mura. Come la ‘tuderta’ Livia Ferracchiati sta decisamente dimostrando.

Sotera Fornaro

Todi is a small town in the center of Italy
testo e regia Livia Ferracchiati
dramaturg Greta Cappelletti
con Caroline Baglioni, Michele Balducci, Elisa Gabrielli, Stella Piccioni, Ludovico Röhl
visto nell’ambito di Tramedautore al Piccolo Teatro Grassi di Milano_il 24 settembre 2017.