Lo svizzero Milo Rau, fondatore dell’International Institute for Political Murder, è uno dei registi più apprezzati e discussi degli ultimi anni in tutta Europa. La sua ricerca si concentra sulla rievocazione di fatti storici più o meno recenti e porta avanti una riflessione sulla rappresentazione della realtà attraverso i media, oltre che una profonda indagine sull’attore/non-attore. Abbiamo avuto occasione di intervistarlo telefonicamente, mentre era in sala prove alla produzione di un nuovo spettacolo e mentre a Milano andavano in scena i suoi Five Easy Pieces al Teatro dell’Arte della Triennale, in collaborazione con Zona K. Ci ha condotto nel suo “teatro della realtà” inteso in un senso molto ampio, che va dal contenuto al processo di lavoro.

Hai fatto spettacoli sui rifugiati, sulla pedofilia, sul Rwanda. Esiste un tema trasversale che attraversa e tiene insieme tutto il tuo lavoro?

I temi in comune sono molti. Da una parte il mio modo di lavorare in scena con gli attori, dall’altra il mio particolare interesse per i momenti più difficili e drammatici della storia collettiva dell’Europa. Così, lo spettacolo sulla rivoluzione rumena dell’89, o sulla rivoluzione russa, o sul genocidio in Rwanda sono di fatto facce della stessa medaglia. Li tiene insieme un altro aspetto molto importante, ovvero l’incontro tra la biografia dei personaggi e quella degli attori, che non sono solo i lettori di un testo ma sono inclusi nella ricerca. Persino i bambini in scena, ad esempio, in Five Easy Pieces, sono coinvolti nel processo con le loro personali biografie.

E come passi da un tema all’altro quando cambi progetto? Molti dicono che lavori con il “re-enactment” ma allo stesso tempo affronti temi molto contemporanei: qual è il tuo modo di registrarti su un tema piuttosto che un altro?

Non credo di passare realmente da un tema all’altro, piuttosto metto a fuoco prospettive diverse sullo stesso macro-tema. Per me ogni spettacolo si colloca di fatto intorno alla stessa domanda: qual è la biografia, qual è il destino individuale in una storia collettiva? Qual è la relazione tra questi aspetti? Ho provato a dare risposte in modi formalmente molto diversi: così ho fatto ricorso al teatro classico, alla tragedia, alla rievocazione storica, alle forme del reale, alla ricerca storico-documentaria, ad attori e ad attori-non attori. Il mio teatro è diverso negli argomenti specifici e nelle forme, ma è molto unitario nello sguardo d’insieme che assumo.

Hai parlato di attori: il tuo lavoro sembra mettere in discussione e indagare il ruolo del performer. C’è sempre un’ambiguità tra l’attore e il personaggio, e in relazione anche a questo aspetto lavori molto con il video: i tuoi spettacoli hanno spesso primi piani dei performer in diretta. Qual è il tuo obiettivo nell’uso dei video? È un modo per arrivare più vicino all’attore o per porre una distanza tra lo spettatore, l’interprete e il personaggio?

Sono tutti questi aspetti insieme: intendo dire che il video consente di arrivare molto vicino al viso degli attori e mostrarne quindi le emozioni, superando una distanza che il teatro di per sé impone. Il pubblico è piuttosto distante, più che nel cinema per esempio. Ma allo stesso tempo il video ha a che fare con la dimensione dell’artefazione: tramite un video puoi dare a un non-attore l’aspetto di un attore e viceversa. La cosa più importante, per me, è che le persone vedano sempre come il video viene realizzato: non è mai un video pre-prodotto e assume sempre un particolare significato se pone domande su come è fatto. La questione che voglio porre è sui condizionamenti della percezione, su come la realtà della vita influenzi il teatro, e su come la non-vita che influenza il video stiano entrando in relazione sul palco. In Five Easy Pieces vedi dei bambini in scena che recitano il ruolo degli adulti, e sui video vedi gli stessi bambini, ma sembrano essere adulti: e questo non può che risultare straniante.

Hai notato qualche particolare reazione del pubblico italiano ai tuoi spettacoli?

So che i miei spettacoli piacciono molto ad alcuni, mentre altri pensano ci sia qualcosa di troppo scandaloso, ad esempio nel tema. Oppure non apprezzano il mio modo di portarlo in scena: molte persone – ma questo è qualcosa di comune per il teatro in quanto forma d’arte molto diretta – sono toccate in modo profondamente emotivo dai nostri spettacoli. Questa è per me la cosa più interessante: io cerco proprio di puntare al centro, al cuore delle emozioni degli spettatori. Questa è forse la ragione per cui le reazioni sono così estreme, da parte tanto del pubblico quanto della critica.

E ti dispiace che creino scandalo? O è qualcosa che ti aspetti?

Me lo aspetto sempre. In alcuni casi mi aspettavo anche molti più problemi di quelli che poi ci sono stati. Ma di fatto il clamore sui media precede sempre la prima degli spettacoli: dopo che sono andati in scena ci si accorge che non c’è nessuno scandalo.

a cura di Francesca Serrazanetti