Dopo anni di studi nella ricerca vocale, con particolare attenzione al rapporto tra corpo e suono, tra personaggio e voce, Andrea Cramarossa teorizza un metodo teatrale legato alla conoscenza delle vibrazioni capaci di provocare sensazioni, e non solo uditive. Questo metodo porta alla nascita, a Bari nel 2003, del gruppo di ricerca Teatro delle Bambole, difficilmente confinabile in una specifica categoria teatrale.
Sabato 7 marzo avrei dovuto discutere con Cramarossa, Federico Gobbi e Domenico Piscopo, alla Libreria Ferrata di Brescia, del percorso di ricerca La lingua degli insetti. Nell’ambito di Metamorfosi Festival, Teatro delle Bambole avrebbe infatti portato in scena lo “spettacolo itinerante tra i bassifondi dell’anima” Il fiore del mio Genet, di cui Cramarossa è drammaturgo e Gobbi e Piscopo interpreti. Nonostante l’annullamento dovuto alle restrizioni abbiamo deciso di non perdere questa occasione di confronto che, partendo da una riflessione sulla poetica del gruppo, si amplia necessariamente dentro e oltre quel “qui e ora” di cui l’arte teatrale non può fare a meno. Ed è da qui che si è sviluppata la discussione con Andrea:
Raccontaci del Nuovo Metodo di Approccio all’Arte Drammatica che portate avanti con la vostra compagnia. In particolare quando lo definite “aperto a contaminazioni” e “agli incontri che la vita di per sé regala”, cosa intendete?
Il Nuovo Metodo di Approccio all’Arte Drammatica è un metodo di lavoro, una metodologia elaborata in quasi vent’anni di ricerca dal gruppo Teatro delle Bambole, voluta e determinata da me, che ho fondato questo collettivo di ricerca nel 2003. All’epoca infatti sorse una necessità, una sorta di richiesta interiore che reclamava ascolto e appagamento. Sentivo il bisogno di rispondere alla sempre crescente e voluttuosa ricerca della verità scenica, di quella sincerità alla quale accennava con fermezza Stanislavskji perché l’attore possa trovare un suo spazio di creazione plausibile, coerente, dell’essere in sé, totale, in sintonia con quel “suono cosmico” che muove ogni cosa. Questo ‘movimento’ è la contaminazione a cui facciamo riferimento e gli “incontri”, fisici e metafisici, mirano ad affinare il proprio sguardo artistico affinché diventi visione.
Proprio all’incontro, elemento fondante per il teatro, siamo al momento impossibilitati e molte compagnie, teatri, artisti stanno mettendo in campo streaming di spettacoli, le chiamate Skype si moltiplicano, le dirette dedicate a processi di creazione artistica anche… Quale pensi sia il valore dei nuovi strumenti digitali in questo contesto?
Il nostro “allenamento” principale è indirizzato alla “sospensione del giudizio” e a un meccanismo correlato al tema del “sacrificio”. Mi spiego meglio: non penso che i nuovi strumenti digitali possano in alcun modo supportare il valore intrinseco dell’arte teatrale, come di qualsiasi altra forma d’arte. Questo perché cambia la modalità con cui si legge il ‘testo’: il teatro non può essere guardato, vissuto o esperito tramite il mezzo digitale, così come attraverso quello televisivo. Il teatro è vivo se vive nel suo tempio – che è il teatro stesso – o in quegli spazi in cui è avvenuto o può avvenire il “rito della sacralità”. Altrimenti è documentazione, informazione, intrattenimento. Questo non perché gli attori e i registi teatrali non siano in grado di parlare agli spettatori tramite quei media, ma perché ritengo che quella dello schermo sia una forma altra, che colloca attore e personaggio dentro il video. È una creazione diversa quella affidata all’arte cinematografica, che utilizza i suoi linguaggi specifici e la sua lettura dei segni scenici. Ciò che i mezzi digitali possono fare, effettivamente, è mettere a disposizione i propri luoghi virtuali alle fugaci apparizioni degli artisti i quali, in quanto esseri sociali, ritengono giusto testimoniare l’inquietudine dell’attuale realtà attraverso il dono di un piccolo frammento di conoscenza e patrimonio poetico. Ma questo non significa che si tratti di teatro. È necessario ricordarsi che il teatro è anche un lavoro. Anche, non solo. Teatro è innanzitutto testimonianza e nessuna diretta Skype o visione di uno spettacolo teatrale registrato potrà mai essere considerata arte teatrale. Sarebbe quindi opportuno, credo, considerarla per quello che è: una registrazione video di un fatto che vive nel “qui e ora”, che avviene al momento, che mantiene con il teatro un rapporto di somiglianza e, a mio avviso, se ne discosta determinandosi in un luogo “altro”. Ora, se qualcuno riesce a stabilire un contatto empatico con questo luogo, allora la visione di uno spettacolo in video potrebbe avere un senso. Per me sarebbe praticamente impossibile. Rimane il fatto che, in questo caso, lo spettatore debba essere ben cosciente di star fruendo di un’altra forma espressiva non è definibile come “teatro”.
Ti occupi di un teatro a cui si possono affiancare spesso gli attributi “politico” e “sociale”. In questo tempo sospeso, incerto, come state reagendo? E quali credi possano essere le azioni più interessanti innescabili attraverso un atto artistico e creativo?
Il nostro teatro è principalmente estetico ed etico. Estetico, in quanto incontra l’azione poetica della ragione e l’azione poetica dell’istinto; etico, perché è senza morale, perché si fonda sulla catarsi e sull’emancipazione dall’alibi (quella corazza in cui ciascun essere umano si crogiola) e determina di conseguenza una forza catalizzatrice che si oppone alla rappresentazione della realtà. Diventa sociale, politico ed educativo in seconda istanza, come ricaduta. Il nostro percorso è infatti interno alla visione dell’arte, ma non di un’arte per l’arte. Semplicemente siamo consapevoli della possibilità di poter guardare la realtà al di fuori di essa, proprio in virtù di quella “sospensione del giudizio” che tende alla neutralità dello sguardo e che, così facendo, si apre alla visione del tutto. Questa visione è poi la visione del drammaturgo, espressa nel linguaggio dei personaggi. Diversamente dovremmo sacrificare quella ricerca della verità e della sincerità scenica a favore della rappresentazione dei personaggi, costringendo quindi gli attori alla menzogna. In riferimento al “tempo sospeso” che stiamo vivendo forzatamente, bisogna distinguere, secondo me, l’artista-uomo dall’artista-autore. Quest’ultimo non può fare nulla, perché la sua azione si esplica, appunto, nell’atto. Egli può solo misurarsi con se stesso, nel proprio laboratorio. L’azione dell’artista in quanto uomo, persona, è invece un’azione necessaria: leggere una poesia, registrarla in un filmato e pubblicarla sui social non è certo un atto artistico primario, ma un’azione politica.
Tra le tue fonti di ispirazione c’è l’Orgien-Mysterien-Theater di Hermann Nitsch, un manifesto teatrale che racconta della necessità di una liberazione dai tabù sociali. Forse oggi più che mai è necessaria quella catarsi antica, una sensibilizzazione di coscienze assopite?
Anche l’arte ha subìto il tremendo e devastante solitone dell’omologazione e del conformismo. Andare a teatro, per esempio, negli anni è diventata una moda, un’abitudine, così come era già avvenuto in passato. Il cosiddetto teatro “alternativo”, quello “off”, “fuori dai circuiti”, è, nella contemporaneità, l’epifenomeno di una mania in cui “fa figo” andare in quello spazio così “giusto” perché fatto nel luogo “giusto”, indipendentemente da ciò a cui si assisterà. Si va sempre più spesso a teatro perché va di moda il luogo diverso, altro, nuovo e non per vivere un’esperienza totalizzante. Si va per passare un po’ di tempo, sempre intrappolati nel dominio del tempo con l’illusione di poterlo domare. E abbiamo infarcito tutte queste finzioni con alibi e riflessioni incongrue, allontanandoci dal fulcro del discorso, ossia dal fatto teatrale di per sé, relegando le nostre considerazioni ai segni scenici in voga per quella stagione. Non ho nulla contro la moda, ma nulla ha a che fare con l’arte. Ha a che fare piuttosto con il commercio, con il marketing, la mercificazione, stuprando termini come “genio” o “geniale”, “icona”, “performance”. E confondendo ancor più gli spettatori.
Quali ritieni siano le urgenze a noi contemporanee? Come pensi l’arte, in particolare teatrale, possa permettere alle persone di reagire e riflettere criticamente sulla contemporaneità?
È difficile rispondere a queste domande perché qui ci stiamo confrontando con quarant’anni di demolizione del sistema di reciprocità, cominciato con la Sanità Pubblica e proseguito con l’Istituzione Scolastica, il Welfare, l’Ambiente e la Cultura. Così, pazienti, lettori, studenti e spettatori sono stati trasformati irrimediabilmente in “clienti”. Gli ospedali, le scuole, le librerie, le compagnie teatrali sono state costrette a trasformarsi in aziende e così anche lo spettacolo teatrale è diventato un “prodotto” e non più un bene. Gli artisti sono stati in un certo senso costretti ad essere, appunto, sempre più e solo competenti, ossia mediocri. Devono calarsi nella realtà per capire quali sono i bisogni del consumatore suo cliente, realizzando prodotti teatrali “usa e getta, di vita breve, senza alcuna possibilità di riappropriarsi del proprio status di artisti nella totalità di significato del termine. L’artista ha la sua reale funzione nell’ambito dell’arte e, a cascata, in quelli sociale, culturale, antropologico. Si parla invece di “industria culturale” e non di “ritualità condivisa”; si parla di “intrattenimento” e non di “esperienza interiore” perché si crede che queste non generino soldi, dentro a quell’ossessione della nostra società capitalistica in cui tutto è stato monetizzato e in cui il detto “il tempo è denaro” è diventato un vero e proprio mantra. Come può l’arte riuscire a far riflettere persone che non ne hanno voglia o che, peggio, per anni non sono state abituate da nessuno a farlo o ad affinare un pensiero critico? La situazione è complessa, ma, forse, questo periodo drammatico potrebbe farci riscoprire ciò che abbiamo sacrificato per ideali materialistici che erano, in realtà, proficui solo per pochi. Le mie domande sono in definitiva altre: dov’eravamo tutti noi quando hanno iniziato a smantellare il sistema teatrale italiano? Qual è stata la nostra posizione? Perché ci siamo adattati e non abbiamo reagito allo scempio? Perché abbiamo lasciato che rabbia e competitività s’abbattessero sulla fantomatica “famiglia teatrale”, spezzando i legami fraterni per crearne di nuovi, mostruosi e incestuosi? Evidentemente è necessario far pace col fatto che non tutti coloro che muovono i loro passi in ambito artistico siano a loro volta artisti. E gli artisti hanno un’enorme responsabilità nei confronti della loro arte, così come ce l’hanno gli spettatori che non possono continuare a perpetrare azioni che rendano inane l’arte con le loro incontrollate smanie. A uguale responsabilità è chiamata l’Istituzione Pubblica, a qualsiasi livello, poiché essa dovrebbe favorire coloro che vivono di arte e non coloro che la vivono come un passatempo e pretendono, ugualmente, di accedere a risorse economiche, peraltro già terribilmente esigue, che sarebbe saggio destinare esclusivamente ai professionisti. Credo dovremmo riappropriarci del senso di colpa per poter comprendere appieno cosa voglia dire essere responsabili dei propri pensieri, delle proprie parole e delle proprie azioni. Forse solo così potremmo comprendere anche il senso di un’unione più sensibile, più profonda tra tutti gli esseri umani e di come l’individualismo sia solo una mera illusione. D’altra parte lo dicevano già Vernant e Vidal-Naquet della nascita, nel teatro greco, del problema fondamentale del tragico, ossia quello dell’agire e della responsabilità umana.
A Metamorfosi Festival con il Teatro delle Bambole avreste portato Il fiore del mio Genet, parte del percorso di ricerca La lingua degli insetti. Come esseri umani, però, non rispondiamo solo agli istinti animali, ma anche a morale ed etica: il vostro sembra essere quindi un discorso sulla diversità, sulla devianza e sulla corruzione della società. Come avete lavorato?
C’è stato un momento, credo, nell’evoluzione del genere umano, in cui la necessità di volgersi verso la “luce”, di avere lo sguardo e il corpo protesi verso una “fonte luminosa o splendente”, si è fatta certezza di vita, una sorta di anelito alla speranza d’essere eterni, immagino attraverso la presenza di ciò che intendiamo essere coscienza e consapevolezza della morte (che vuol dire invece consapevolezza della vita). Immagino sempre che poi le cose si siano complicate, con l’interpretazione di questa “fonte luminosa”, di vita e morte – attraverso magari visioni religiose o mistiche dell’esistenza – anziché la presa di coscienza del paradossale e ossimorico connubio tra luce e buio. Questo ha determinato l’insorgere della “mente giudicante”. Lavorare sui testi nonché sulla personalità di Jean Genet è stato per me proprio come varcare quel confine che divide la zona in luce da quella al buio. Il confine, nelle nostre società attuali, così smaliziate, è netto, ma facilmente attraversabile: le due zone non sono in comunicazione e sono dimensioni che noi possiamo tranquillamente frequentare, ma che, senza consapevolezza, possono scindere la nostra anima e la nostra personalità, determinando una continua oscillazione dal conflitto generato. Ecco, io ritengo Genet abbia proprio voluto accentuare questa doppia, istantanea, visione dell’umano, al di là di definizioni e catalogazioni, conducendoci nel torbido d’una umanità sordida e umiliata, umiliante a sua volta, che ha fatto del tradimento e del mercimonio la sua modalità di sopravvivenza. Un’umanità che, irriducibilmente, seduce quell’altra umanità che noi consideriamo “giusta” e, dunque, in luce. Le riflessioni credo siano tante su questi temi e penso che le domande nate dopo la visione de Il fiore del mio Genet siano innumerevoli e di difficile sedimentazione in quanto smuovono ciò che la società tende a rimuovere. Spero vivamente che la messa in scena possa avvenire a Brescia, nel contesto di Metamorfosi Festival al più presto, anche perché vorrebbe dire esser usciti da questa terrificante clausura delle nostre esistenze.
A febbraio 2020 è nato l’archivio, sia fisico che digitale, “Andrea Cramarossa – Teatro delle Bambole” presso Casa Morra – Archivio d’Arte Contemporanea di Napoli. Oltre alla possibilità della doppia consultazione, è un luogo eterogeneo che accoglie manoscritti, locandine, cortometraggi realizzati e non, opere, rassegne stampa dedicate al vostro lavoro. Come lo avete costruito e quali saranno i passaggi successivi?
È stato raccolto molto materiale, non tutto, naturalmente, perché parliamo di ‘resti’ di percorsi esperienziali di oltre vent’anni di pratica teatrale. Il lavoro, in particolare di Federico Gobbi che pazientemente ha ordinato materiale del quale avevo anche dimenticato l’esistenza, ha permesso di organizzare una nutrita quantità di esperienze catalogate per anno, progetto e sviluppo artistico e sociale. Ritengo che un archivio, in generale, sia un luogo vivo in grado di contenere e proteggere ciò che definisco, appunto, i “resti” o le “spoglie” della materia teatrale fatta e finita sulla scena. Penso anche che un archivio sia capace di rivelare, attraverso altri sguardi, altri sensi, e di porre così lo spettatore di fronte a un ascolto inusuale, inusitato e necessario verso l’arte teatrale. L’archivio della Fondazione Morra – Istituto di Scienze delle Comunicazioni di Napoli è proprio questo genere di spazio: una dimensione dedicata soprattutto al teatro in quanto arte, anche nelle innumerevoli relazioni con il pubblico, che è sempre invitato a godere delle meraviglie in esso custodite. Sicuramente ci saranno altre possibilità di amarsi in questa canea di umani entusiasmi che solo l’arte può materializzare in un respiro aperto, completo, organico, a cominciare dall’opportunità di poter integrare, nel tempo, il materiale già presente nel corpo antico di Palazzo Cassano Ajerbo D’Aragona. Naturalmente tutto ciò è reso possibile dall’ammirabile propensione di Beppe Morra nel mettere in relazione gli artisti ospitati nel Museo e nell’Archivio, in un proficuo valore dialogico che si incarna nell’incontro di molteplici anime. Noi stessi abbiamo vissuto l’estatica esperienza di una residenza teatrale presso la Sala Capriata del Museo Hermann Nitsch, immersi tra le sue opere, avendo a disposizione quello spazio sacro e altamente stimolante per l’elaborazione di Pferd Person, ultima nostra opera (ed epilogo de La lingua degli Insetti) dedicata all’antinomia tra la vita delle cimici e la vita degli esseri umani.
Camilla Fava