Il palco è buio. Un riflettore emana una luce calda e intensa, illuminando la figura di un violoncellista immobile, seduto sul fondo. Davanti a lui, per terra, cinque involucri di plastica ci fanno pensare a dei rifiuti, degli scarti, a una materia inerte e inutile. Ecco che però, di soppiatto, cinque ombre, strisciando nel buio, si infilano sotto la plastica e vanno ad abitare questa materia: la riempiono, se ne appropriano e cominciano a renderla viva. La plastica opaca non ci permette di distinguere chiaramente né i corpi, né i loro movimenti, ma vediamo che sono frenetici, scattanti, che lottano con l’involucro come per liberarsene: vogliono uscire. Forse non respirano nemmeno lì sotto, e per questo si dimenano: strisciano, rotolano, scalciano.
Ciascuno di loro, con il proprio tempo, riesce ad avere la meglio sulla plastica e a liberarsi dalla “prigione”, esattamente come una vita appena nata che si sbarazza della placenta o esce dal guscio. Una vita che può affermare la propria libertà riconquistata attraverso il movimento e, soprattutto, la danza. I corpi, finalmente liberi da qualsiasi limite, cominciano a muoversi e a danzare nello spazio, riappropriandosi di quella verticalità che fino a poco prima gli era impossibile. Insieme ai corpi anche la musica si sprigiona: il suono del violoncello, da malinconico e sommesso, si fa sempre più intenso, fino a quando non viene raggiunto sul palco dai restanti componenti di un quartetto d’archi. Al crescendo musicale, che segue le note di Beethoven e Wolfgang Rihm, non sempre però corrisponde una maggiore intensità coreografica: sembra esserci un vero e proprio “scollamento” tra sinfonia e movimento danzato, che di classico e posato non ha praticamente nulla. I corpi non sono quasi mai sincronizzati, non si muovono e non si spostano all’unisono. Poi le luci si spengono di nuovo, la musica si interrompe: le ombre nere dei danzatori, che si stagliano su uno sfondo color tramonto, assumono tutte la stessa posa. Alzano un pugno, chiuso. Eccola finalmente una coralità, una direzione univoca che emerge Tra le linee in tutta la sua energia evocativa.
Anna Monteverdi
(ph: Sara Meliti)
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MILANoLTREview