L’ultima sera d’estate a Milano. Stormi di teen-agers, con indosso abiti di tendenza, passeggiano stringendo in mano il filo di palloncini rosa a forma di cuore che si agitano lievi sulle loro teste. Il traffico impazzito, taxi impantanati tra la folla che da via Torino, attraverso il lucore imponente del Duomo, sta in cammino verso le scintillanti vetrine di Corso Vittorio Emanuele: la sera dell’inaugurazione della settimana della moda. L’autore di teatro Philipp Löhle, nato del 1978, addosso un paio di jeans chiari ed un’anonima t-shirt nera, una delle voci teatrali giovani ma più accreditate in Germania (i suoi drammi, editi da Rowolth, sono già stati sui principali palcoscenici, tra cui il tempio berlinese della Schaubühne), ha passeggiato anche lui stasera per Milano. Si presenta un po’ inebetito e racconta timidamente, prima dello spettacolo, di esser stato impressionato dai “tanti locali commerciali vuoti, sfitti e dalla quantità incredibile di appartamenti in vendita. Un’ottima ambientazione per la mia commedia” – soggiunge. Pochi lo capiscono.
Il Piccolo Teatro incute soggezione anche ad un autore pluripremiato come lui. Qui si è svolta una pagina importante della storia del teatro mondiale, e Löhle, con alle spalle una solida institutio universitaria da Theaterwissenschaftler (chi ha studiato, cioè, ‘scienza del teatro’), lo sa bene. Affronta col sorriso, ma certo col batticuore, la versione italiana della sua piéce Bandierine al vento, nell’ambito di un festival coraggioso, che quest’anno si interroga sull’ Europa. La sala è piena, anche di contrasti: al pubblico borghese di mezz’età si associa qualche giovanissimo dall’aspetto fintamente trasandato, originale, diremmo, che parla tedesco.
Un compito arduo attende la commedia di Löhle: rappresentare ad un festival sull’ Europa il paese odiatissimo per l’imposizione delle regole economiche comunitarie, un paese di cui solo qualche giorno fa le elezioni hanno svelato una non latente e pericolosa xenofobia; il paese dei Gastarbeiter (‘lavoratori-ospiti’), come con eufemismo si designavano negli anni sessanta del secolo scorso i turchi e gli italiani che fornirono la manodopera alla grande industria automobilistica e di base tedesca; un paese che ripetutamente deve fare i conti con la propria storia e con le proprie colpe: a cui tutto viene rinfacciato; eppure restato meta agognata, nell’ultimo decennio, soprattutto della migrazione cosidetta intellettuale, specialmente verso la sua città simbolo e mito: Berlino.
Con la storia recente si confronta questa crudele commedia di Löhle: che racconta il destino di una singola famiglia, l’orgoglio di mamma e soprattutto di papà, sbattuta dal vento dei cambiamenti tecnologici ed ideologici dal secolo scorso sino ad oggi. Una famiglia del sud tedesco benestante, abituata alle vacanze sul Mediterraneo con l’auto aziendale e ai conforts della vita borgese, che va in rovina lentamente prima per l’orgogliosa coerenza del padre, che si licenzia per non lavorare con internet, poi per la recessione economica che travolge tutti e li obbliga a darsi da fare: la figlia, poco convinta dei suoi studi di ‘ingegneria ambientale’, apre di nascosto un laboratorio di sartoria alla moda (che caso, proprio stasera!); e fa invero i soldi, ma solo perché lavora in nero ventiquattr’ore al giorno come una schiava in un seminterrato. La sua precaria fortuna finirà con una denuncia all’agenzia delle entrate.
La commedia, con qualche risvolto autobiografico, ha un testo brillante e denso di riflessioni: non ne racconteremo tutta la vicenda e soprattutto la conclusione. Ma tanto più interessante risulta per il pubblico in questa esplosiva serata milanese, perché apre gli occhi su una società tedesca che ci ostiniamo a non vedere: una società segnata dalla crisi economica, in cui i padri hanno perso le garanzie sociali e lavorative del pre-unificazione, i figli soffrono di uno sbandamento morale, obbligati come sono alla produttività che fa loro rinunciare ai sogni, strangolati da debiti e tasse (anche universitarie). Dove facilmente il figlio minore, un romantico e fragile poeta che coltivava da adolescente la sua arte nella solitudine buia di una cantina, si trasforma in un armato tutore della legge, un poliziotto a cui sta a cuore ormai solo l’ordine, l’ordine ad ogni costo, l’applicazione intransigente, ottusa, delle regole.
Una storia eccezionale, un’invenzione letteraria che fa il verso a modelli alti, come Morte di un commesso viaggiatore? No, una storia tratta dalla quotidianità e dall’esperienza di una generazione nata in quella che era la Repubblica Federale Tedesca, la parte occidentale della Germania. E che oggi non sa bene cosa la attende nel futuro. La generazione che vive rassegnata con il sussidio di disoccupazione (quella misura che si chiama Hartz IV), una specie di elemosina statale, che lavora ‘su progetto’ e non conoscerà mai la stabilità di un posto fisso di lavoro. Che poco si distingue, se non per la lingua, dalle corrispettive generazioni italiane, spagnole, greche. Eccola, finalmente, la Germania di Philipp Löhle, in scena al Piccolo grazie al festival Tramedautore. Questa commedia mi ha ricordato molto un film del 2014, Un dono degli dei del regista Oliver Haffner, portato a Milano sottotitolato dal Goethe-Institut per una sera: nel film una ‘compagnia’ di disoccupati, in una cittadina del ricco sud tedesco prostrata dalla crisi, mette in scena l’ Antigone di Sofocle e, in un mondo segnato dal dio denaro, si difende con le parole dell’ostinata resistenza della figlia di Edipo. Una commedia anche quella, ma quanto amara!
Ottima la traduzione, essenziale ma efficace la messa in scena. I personaggi diventano anche ‘coro’ con qualche intermezzo musicale che assicura ancora più ritmo ad un testo talora precipitoso. Curati i dettagli, dall’abbigliamento tradizionale bavarese del padre e gli immancabili birkenstok con i calzini, ai tailleurs impiegatizi della mamma nella sua fase carrierista, alla intimorente uniforme del figlio poliziotto nel finale, in un riuscito concerto di musica e luci. Gli attori reggono tutti la non facile prova del profluvio di parole e azione, con un asterisco di merito sulla prestazione, attoriale e fisica, di Emanuele Cerra.
Sotera Fornaro
BANDIERINE AL VENTO
di Philipp Löhle
traduzione Nadja Grasselli
con Silvio Barbiero, Emanuele Cerra, Marta Marchi, Clara Setti
regia Toni Cafiero