Prendi una fra le più amare opere di Ibsen e abbandonati a un viaggio di giocosa erosione che intende riflettere con intelligenza sull’oggi. Necessario combustibile è la forza comunicativa della giovane compagnia Vico Quarto Mazzini che, dopo il debutto lo scorso maggio a Castrovillari (Festival Primavera dei Teatri), porta a Milano una nuova versione di Little Europa (testo di Gabriele Paolocà, Premio Hystrio alla Vocazione 2015). Si tratta di un lavoro articolato e ambizioso, che presenta alcune smagliature e snodi ancora acerbi, compensati però dall’energia dirompente e metamorfica del gruppo, che travolge il pubblico con il coraggio e la profondità di una riflessione politica sulle disillusioni contemporanee, attraverso il gioco e il ventaglio alchemico di stili e linguaggi.
Il dramma ibseniano Il piccolo Eyolf (1894) è solo un pretesto situazionale, innesto parodico triturato sotto l’urgenza dell’oggi. Questa trasposizione è ambientata nel XXI secolo e non nei fiordi della Norvegia, ma forse in Svezia, come segnala il cuscino sul divano, foderato nei colori giallo e blu della bandiera. Con effetto straniante, la lingua parlata in scena è l’inglese, quello maccheronico del marito (Michele Altamura), migrante italiano che ha nel cuore mammà e i suoi manicaretti, e quello perfetto scandito dalla moglie svedese (Gemma Carbone), innamorata dell’ordine asettico e delle tradizioni nordiche. Lo pseudo-realismo della situazione iniziale si sfilaccia in gestualità nevrotiche, parossismo insistito, con scontri tragicomici di clichés che disegnano un naufragio matrimoniale, ma soprattutto il fallimento della convivenza interculturale, perché ognuno resta trincerato nella propria gabbia di individualismo.
L’architettura parodica si colora di toni grotteschi anche grazie all’accostamento antifrastico tra l’azione scenica e il “controcanto” della musica classica e della pacata e didascalica voce narrante off, anch’essa in inglese: si crea così un filo contrastivo che stempera i toni eccessivi e spesso provoca il riso. L’inglese, che dovrebbe essere la lingua franca, produce qui barriere: non esiste quindi una lingua-ponte per la comunicazione condivisa fra popoli, e anzi c’è uno iato incolmabile fra l’accadere e la sua descrizione, perché il linguaggio si rivela impotente.
L’akmé della tensione si tocca con la comparsa improvvisa del figlio (Gabriele Paolocà), un bimbo malato e deforme, che traballa insicuro ed emette soltanto urla gutturali. Il suo nome è “Little Europa”. I genitori ne provano ribrezzo e sono incapaci di amarlo e accudirlo. Abbandonato da tutti, Little Europa cerca di rifugiarsi nel sogno, quello di una tata meravigliosa e allegra come Mary Poppins (Maria Teresa Tanzarella), ma la visione sfuma presto in incubo sulle note dell’Inno alla Gioia, e non ci sarà lieto fine per il piccolo Europa.
La parabola è chiara: quella povera creatura che evoca celebri mostri, dal Gobbo di Notre-Dame a Elephant Man, è lo specchio dell’attuale Unione Europea, una bella utopia che sta mostrando tutte le sue fragilità e che noi stessi stiamo portando alla distruzione. Il livello ‘secondo’ – cioè quello della potente e acuta metafora – non viene però sfruttato pienamente e rischia di perdersi in un’esibizione forse troppo insistita della mostruosità.
Ma dopo questo rallentamento, ecco che il ritmo ha un’impennata e si passa a una carambola di fantasiose sorprese che disegnano, sempre in toni divertiti, i contorni dell’epoca “post-“, a partire dal folle funerale di Europa (personaggio e palese metafora) sulle note di “Candle in the Wind” suonata da uno scatenato Elton John. E poi, come per rievocare le gesta della defunta Unione, prende il via una sfilata carnevalesca, che ripercorre all’indietro, con volute ellissi e omissioni, le tappe della civiltà europea, ancora una volta puntando sui clichés: l’ufficiale SS, il giacobino rivoluzionario, il cardinale, Amleto, la Gioconda, si affrontano in brevissimi sketch-duelli, con inclusa morte in scena, inchino e applausi registrati. In questa girandola diacronica, comica e surreale, il cronometro della Storia sembra fermarsi sullo scontro-incontro fra un centurione Romano e una Vichinga, non troppo diversi dall’italiano e dalla svedese dell’apertura. Ma la sentenza su Europa spetterà a un essere ancora più antico: il monito che sgorga dal giurassico fino a noi, abitanti dell’epoca liquida della “fine della storia”, non può che essere un invito doloroso all’oblio di Europa. Bisogna dimenticare di averla messa al mondo e non pensare che le cose potevano andare diversamente. Non c’è altro da fare. Parola di dinosauro.
Gilda Tentorio
Little Europa
di Gabriele Paolocà
regia di Michele Altamura e Gabriele Paolocà (VicoQuartoMazzini)
visto il 21 settembre 2016