Are they assigned, or can the countries pick their colors?
What suits the character or the native waters best.
Topography displays no favorites; North’s as near as West.
More delicate than the historians’ are the map-makers’ colors.

(Elizabeth Bishop, The Map, 1946)

«Don’t ask me where I’m from, ask me where I’m local».
In un TED Talk del 2014, Taiye Selasi invita a ripensare la tipica domanda introduttiva «Da dove vieni?» per riformularla in questo modo: «Dove sei di casa?». In un mondo globalizzato, in cui una delle poche ricchezze restanti è la circolazione di persone, culture e filosofie, definire la nostra identità attraverso il paese indicato sul passaporto sarebbe meno ricco e avvincente che farlo attraverso i paesi in cui viviamo o abbiamo abitato, quelli che formano la nostra storia e la nostra esperienza. In fondo, il concetto stesso di “paese” è un’invenzione, o, drammaturgicamente parlando, una finzione. Eppure, sostiene Selasi, tutti siamo caduti nel «privilegiare una finzione, il singolo Paese, rispetto alla realtà, l’esperienza umana».
E se provassimo a immaginare le carte geografiche non ritagliate da linee di confine? Se i confini si trasformassero in semplici sfumature fra lingue diverse, e fra culture prive di centro? Non sarebbe forse uno dei segnali più maturi della fine di ogni conflitto tra nazioni, e dell’inizio di un mondo più libero e fluido? Si tratta probabilmente di un’utopia. Eppure qualcuno l’ha intravista, se non altro (anche per contrasto) ne ha riempito pagine e pagine, nella maggior parte dei casi pagando conseguenze assai care.

Verso tale utopia si direziona il nuovo focus di Calapranzi. Dopo quelli sulle drammaturgie catalane, austriache e islandesi, abbiamo disegnato un campo di indagine che non corrispondesse più a un territorio specifico, ma a delle multi-località e a dei movimenti transculturali. Il nuovo focus sulla drammaturgia transculturale si occuperà infatti di autrici e autori che, provenienti da diverse situazioni, si sono ritrovati a vivere in nuovi territori d’Europa, a scrivere in altre lingue. Spesso, oltretutto, il loro movimento è stato di tipo concentrico, dalle periferie di paesi politicamente ed economicamente deboli verso città europee la cui centralità e importanza si riflette anche nel mondo teatrale e nelle possibilità che esso, in quelle città, offre. Gli assi di spostamento individuati sono principalmente due: il primo, dall’est Europa verso Francia, Inghilterra e Germania, rivela movimenti influenzati dalle crisi economiche e dalle forti contraddizioni politiche nate con la fine della seconda guerra mondiale e con i conflitti di fine Novecento; il secondo, dall’Africa verso la Francia, testimonia quell’esperienza della diaspora che è uno dei più dolorosi lasciti nel mondo post-coloniale.

Theo Imani, dalla serie “Echi e Accordi”. Caravaggio, “Bacco” (1598 ca) e Herbert Lang, “Portrait of Manziga (Avungura), Chief of Azande (1910-1915)”, (2019-ongoing).

Le domande a cui cercheremo di trovare risposte attraverso i testi degli autori presi in esame pertengono alla loro condizione di transculturalità. Quanto resta della loro cultura di nascita nei loro testi, e quanto invece si relaziona alla cultura di adozione? Qual è il loro rapporto con le lingue conosciute, o con quelle utilizzate? Perché hanno privilegiato la scrittura drammaturgica rispetto ad altre forme letterarie? E, di conseguenza, qual è il rapporto che lega tali autori al palcoscenico?
Se ad esempio Kossi Efoui, scrittore togolese di lingua francese, ha uno stile poetico che lo avvicina alle ritualità africane, in realtà è percepito in Francia come uno degli autori più distaccati da una certa fedeltà al panafricanismo e alla negritudine portati avanti da autori precedenti. Il suo approccio originale è votato a un’ibridazione della sua cultura d’origine con quella occidentale, e non è forse un caso che la sua scrittura abbia affascinato il mondo del teatro di figura contemporaneo. Proprio alle sue drammaturgie dedicheremo il nostro “focus nel focus”, nel tentativo di rompere quei confini d’Europa – non a caso ancora oggi tanto difficili da definire.

In questa ricerca sulle drammaturgie in movimento non poteva non rientrare il romeno Matéï Vișniec, celebre scrittore che ha subito la censura e la persecuzione politica sotto la dittatura di Ceaușescu prima di emigrare come rifugiato politico in Francia. Lo stesso Visniec, in una lezione al DAMS di Bologna del 2008, ci aiuta subito a fare chiarezza e a non scambiare i ricchi paesi del nord-Europa per benefattori paladini della libertà: 

Quando sono arrivato in Francia mi sono accorto che anche nei paesi che hanno una lunga tradizione democratica ci sono forme di manipolazione a volte sottili, a volte grossolane. Ero passato da una manipolazione di tipo comunista alla manipolazione della società dei consumi, che sotto certi aspetti è persino più insidiosa. Nei paesi totalitari dell’Europa dell’est era facile individuare il male e denunciarlo, perché lì il male era visibile: era il sistema, l’autarchia del partito, l’ideologia unica, la polizia onnipresente, la censura. Mentre, nei paesi occidentali, è molto più difficile denunciare un lavaggio del cervello che viene operato dalla pubblicità, dalla moda, dall’esibizione ossessiva di mille prodotti che dobbiamo comprare e di cui non abbiamo bisogno. È molto difficile parlare d’una manipolazione che si serve delle informazioni più che della censura.

Matéï Vișniec

Sarà interessante confrontare l’universo teatrale e transculturale di Visniec con quello che emerge in altri due giovani drammaturghi nati nella Romania socialista: Alexandra Badea e Thomas Perle. Se anche la prima si è trasferita a Parigi all’età di ventitré anni e ora lavora stabilmente con il teatro nazionale La Colline (che ha un direttore libano-canadese), il secondo è emigrato con la famiglia in Germania da bambino, per poi formarsi in un contesto tedesco e arrivare a lavorare nei teatri di Norimberga e di Vienna.
Il terzetto di drammaturghi di origine romena offre dunque prospettive molto diverse grazie ai fattori chiamati in causa nel loro tragitto: la cultura generazionale, il vissuto storico-sociale, il paese di destinazione. Questi elementi hanno influenzato e influenzano le rispettive scritture, dai processi fino alle ricerche stilistiche.
A Visniec, Badea e Perle aggiungiamo un’altra drammaturga dei paesi balcanici: Tena Štivičić, drammaturga croata che vive a Londra, dove collabora con teatri del calibro del National Theatre. Soprattutto in quest’ultimo caso – ma ciò riguarda anche gli altri nomi fatti finora – sarà interessante notare quanto e come le drammaturghe e i drammaturghi mantengano legami più o meno stretti con i teatri serbi, croati, bulgari e romeni.

Come emerge da queste prime domande di partenza, tra carta e messa in scena, i testi comporranno nuove linee e nuove mappe, legati a un movimento che trasborda dai confini e che prende forme sempre cangianti, seguendo un’altra efficace formula di Taiye Selasi: «my experience is where I’m from».

Riccardo Corcione, Francesca Di Fazio


La citazione di Matéï Vișniec è tratta da Il lavoro “orizzontale” dell’autore, in Il Teatro di Matéï Visniec, impronta dei tempi, a cura di G. Guccini, «Prove di drammaturgia», XV, 1, 2009, p. 7.