Tra il 2 e il 5 maggio si è svolto a Modena la settima edizione di Trasparenze festival, organizzato da Teatro dei Venti, con la direzione artistica di Stefano Tè e la consulenza di Giulio Sonno. Le due prime giornate hanno avuto come elemento centrale una doppia trasferta presso le carceri di Castelfranco Emilia e di Modena, dove sono andati in scena gli esiti di due laboratori con i detenuti delle strutture, oltre che Divine, spettacolo diretto e interpretato da Danio Manfredini.
Passato il controllo di sicurezza all’ingresso della Casa di reclusione di Castelfranco Emilia, la visione del cortile interno è piuttosto surreale: un giardino, con al centro un labirinto di siepi, quattro serre, un piccolo parco giochi, addirittura dei conigli nani che corrono liberi per i prati. «Non è tutto così “biondo” però», ci avverte Nicola Borghesi, cofondatore di Kepler-452 e “guida” speciale della giornata, «altri ambienti che oggi non vedrete rispecchiano molto più fedelmente l’idea di carcere a cui siamo abituati». La struttura ospita 104 persone, tutti uomini, tra detenuti tossicodipendenti e internati, trattenuti in quanto ritenuti socialmente pericolosi. Borghesi ha condotto un laboratorio in 17 incontri con una quindicina di loro. Il lavoro si è incentrato sul ricordo, da individuare e da elaborare tramite il linguaggio teatrale.
Nelle ultime pagine de Lo Straniero di Albert Camus, il protagonista Mersault, chiuso in cella, realizza: «Ho finito per smettere del tutto di annoiarmi da quando ho imparato a ricordare (…) Allora ho capito che un uomo che avesse vissuto soltanto un giorno avrebbe potuto facilmente vivere cent’anni in una prigione. Avrebbe avuto abbastanza ricordi per non annoiarsi». Anche per i detenuti di Castelfranco la memoria è inizialmente lo strumento per sconfiggere la noia del carcere, la principale antagonista delle giornate all’interno delle mura. In seconda battuta però, portare in scena il proprio vissuto, diviene uno strumento per riappropriarsene, per affermare la propria compiuta identità, emancipandosi dall’etichetta di detenuto che un ambiente omologante e restrittivo come il carcere sembra attaccare in modo irreversibile sugli individui.
«Noi qui evadiamo ogni giorno, solo che nessuno se ne accorge» ci urlano in coro gli attori, fronteggiandoci da dentro il labirinto di siepi. Tutto ciò che viene dopo è una dimostrazione del postulato iniziale. In una serie di quadri, ciascuno ci racconta una storia. Chi rievoca il padre che lo cercava la notte per piazza Verdi, il luogo di ritrovo dei balordi a Bologna, e chi, la prima volta che gli sono state consegnate le chiavi dell’alloggio Aler, ha subito riempito lo spazio di fiori, «perché ora che avevo una casa e la volevo piena di fiori!». Ma portandola in scena, la propria storia può anche essere trasformata: e allora c’è chi racconta di quando è evaso per un giorno con le ali di legno che si era fabbricato, o di una rapina in banca compiuta a cavallo di un asino. Veniamo così guidati, scena per scena, attraverso tutto il cortile, fino a entrare nel teatro dell’Istituto, dove lo spettacolo si conclude.
Ciò che più coinvolge, nell’esito del laboratorio, è l’urgenza degli attori a comunicare ciascuna delle vicende, accompagnando però la spontaneità a un totale controllo emotivo di quanto raccontano, anche nei momenti più drammatici. «Il puro dolore non ha cittadinanza in scena» racconta Borghesi durante una conversazione curata dai ragazzi della Konsulta – giovani under 30 che affiancano la direzione del festival negli aspetti organizzativi e artistici – «abbiamo voluto evitare qualsiasi pornografia del dolore e abbiamo fatto sì che tutti gli attori si confrontassero con i loro ricordi in una forma artisticamente mediata, frenando la loro eccessiva energia. Anche la foga a volte è una forma di protezione».
La casa circondariale di Modena si presenta molto più duramente realistica. La facciata dell’edificio è grigia e sudicia, comunica una sensazione di angoscia diffusa. Stando ai dati del 31 gennaio di quest’anno, la struttura è gravemente sovraffollata: 488 detenuti su 372 posti regolamentari. Varcato un infinito numero di cancelli, il gruppo dei visitatori raggiunge la falegnameria del carcere, attraversando i corridoi all’interno, dipinti con paesaggi marittimi e alpini. La stanza è disseminata di tavoli di legno in ordine sparso. In fondo, il gruppo dei detenuti, ci osserva sorridendo, si protende verso di noi ma non si muove. Il pubblico vince abbastanza presto le timidezze e accetta il contatto. Ci scambiamo strette di mano, ci salutiamo, i due gruppi si mischiano, così quando gli attori cominciano a declamare le battute è necessario cercarli in mezzo alla folla, individuarli tra gli altri volti.
«L’aspetto più importante di questo lavoro è permettere a queste persone di potersi presentare, almeno per il tempo del saggio, come gli uomini (non i cittadini) che erano fuori: potersi relazionare con gli altri come uomini e non solamente come detenuti». A parlare è Simone Bevilacqua, direttore artistico di Teatro Ebasko, che ha curato la regia di questo saggio, partendo dalle improvvisazioni dei membri del laboratorio per la partitura fisica e per i testi (per questi ultimi basandosi anche su tracce di Kafka e Gianni Celati). Bevilacqua coadiuva Teatro dei venti nell’organizzazione dei laboratori di teatro in carcere dal 2016: un percorso impegnativo, che si scontra spesso con le difficoltà organizzative dell’Istituzione: «Il gruppo cambia molto spesso, gli ultimi cinque membri sono arrivati solo una settimana fa».
Quando gli attori terminano la loro performance, ci guidano nuovamente per i corridoi, dove incontriamo altri detenuti. Quando arriviamo al teatro della struttura, dotato di un piccolo palco e sedie di plastica e ferro, siamo oltre cento. Dopo pochi minuti, Danio Manfredini sale sul palco e si dirige al leggio. Ha inizio Divine tratto dal romanzo Notre Dame des fleurs di Jean Genet, testo a cui Manfredini ritorna dopo Cinema Cielo (2003), vincitore del premio Ubu per la miglior regia. Genet scrisse l’opera nel 1944, mentre era detenuto nel carcere di Parigi per furto e vagabondaggio. La trama è incentrata sulle vicende di Louis, detto “Divine”, giovane travestito che, fuggito di casa, si immerge nei sobborghi più squallidi di Parigi. Lì incontra magnaccia, marchettari e criminali vari, tra cui spicca “nostra signora dei fiori”, ragazzo di straordinaria bellezza che una notte, senza apparente motivo uccide e deruba di pochi franchi un vecchio. “Nostra signora” sarà condannato alla ghigliottina, mentre “Divine” morirà di tubercolosi.
Manfredini mette in scena una lettura in cui interpreta con maestria le voci di tutti i personaggi. Il suo leggio è all’angolo del palco, appena illuminato. Al centro campeggia un telo su cui sono proiettati i disegni che il regista ha tratto dal testo di Genet. Contrappunto dell’estrema semplicità della messa in scena è la carica emotiva, in continuo crescendo, con cui le vicende di Divine sono trattate. L’interpretazione, le tavole, le musiche dei Pink Floyd (The great gig in the sky; Comfortably numb) mostrano come Manfredini sposi appieno le cause care a Genet: l’elevazione a martiri dei suoi protagonisti e l’esaltazione del loro coraggio a vivere al di fuori dei valori di una società borghese, spietata e marginalizzante. Il patetismo che ne emerge risulta a volte anche ingenuo, ma è apprezzabile il coraggio di mostrarsi in modo così aperto e sincero davanti a un pubblico difficile, talvolta anche ostile.
Dopo pochissimi secondi di spettacolo, un detenuto si gira verso di me e mi chiede «Amico, ma questo è un funerale?», alludendo alla sola luce da tavolo che illumina il volto di Manfredini. Sempre lui pochi minuti dopo, quando viene raccontata la prima scena di amore omosessuale, si alza ed esce dal teatro scortato da una guardia. Un altro lo segue poco dopo. Alla fine dello spettacolo però, l’applauso è lungo. I membri del laboratorio di teatro sono i primi ad alzarsi per una standing ovation, e in molti li seguono. «Per me è stato importante che i ragazzi del laboratorio si siano sentiti responsabili della riuscita di questa messa in scena, che si siano comportati da compagnia ospitante nel teatro del carcere» ci dice la sera Bevilacqua, «Manfredini è venuto a trovarci mentre lavoravamo, è stato molto disponibile, ha dato anche consigli ai nostri attori».
I due pomeriggi a Castelfranco Emilia e a Modena sono stati di alto valore artistico e civile: ridare senso al tempo delle proprie vite prigioniere, riattivarlo con progetti in cui i condannati riconoscano il valore e verso cui si sentano responsabili è un obiettivo importante. È importante permettere loro di sentirsi persone oltre che detenuti, e lo è fare sì che possano mostrarsi come tali davanti a un pubblico. È tuttavia perfino scontato finire per interrogarsi su quanto questi progetti possano influire sulla realtà carceraria: quanti altre iniziative di questo tipo servirebbero, quanti altri detenuti dovrebbero coinvolgere, quante altre cose andrebbero cambiate? È possibile un teatro che cambia le carceri?
La frase manifesto di quest’edizione di Trasparenze è “Muovere utopie”. Si tratta di un titolo onesto e adatto alla situazione. Le utopie sono oggetti complicati, anche infidi, paralizzanti nella loro aura di irreale perfezione. È utile allora ricordare a volte che anch’esse hanno un punto di inizio e che questo sta nell’avere il coraggio di concepirle, iniziarle, sbloccarle dalla propria pesante inconsistenza: mettere una pulce nell’orecchio, proporre un’idea, una possibilità di un carcere più umano e più giusto.
Michele Spinicci
2 maggio ore 18.30
Carcere di Castelfranco Emilia
Tecniche di evasione
Un finale di laboratorio scritto e diretto da Nicola Borghesi/Kepler-452
con gli attori detenuti e internati della Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia
3 maggio ore 18.00
Carcere Sant’Anna
compagnia Teatro Ebasko
esito del laboratorio coi detenuti del carcere di Modena
3 maggio ore 18.30
Carcere Sant’Anna
Divine
Di e con Danio Manfredini
liberamente ispirato al romanzo di Jean Genet “Nostra Signora dei Fiori”
disegni di Danio Manfredini