Quattro città: Modena, Bologna, Cesena, Vignola. Undici spettacoli di teatro e danza.
La sedicesima edizione di VIE Festival (7 al 16 ottobre 2022) si è svolta – dopo la brusca interruzione in corso d’opera nel 2020 causata della pandemia – nell’egida della nuova direzione di Valter Malosti, ma in linea di solida continuità con la progettualità della responsabile esteri di ERT, Barbara Regondi, che da sempre ne ha curato la formula e la programmazione.
I luoghi di VIE spaziano dai tradizionalissimi teatri all’italiana gestiti da ERT (il modenese Storchi e il Bonci di Cesena), a spazi contemporanei che evocano una logica-auditorium (l’Ermanno Fabbri di Vignola e quello bolognese del MAST) fino a una ex chiesa cesenate. Il festival emiliano-romagnolo si conferma capace di intercettare e diffondere le direttrici più innovative della creazione contemporanea, dalle scenografie dematerializzate di Krystian Lupa alla realtà aumentata di Susanne Kennedy: condividiamo dunque tre cartoline capaci di raccontarne la pluralità di linguaggi e di voci.
- Krystian Lupa e il fallimento dell’utopia
Tra gli appuntamenti più attesi del festival figura Imagine del polacco Krystian Lupa: uno spettacolo di cinque ore in lingua originale e sovratitolato in inglese ed italiano. Il palco, all’esordio della maratona, è un grande salotto, dove un uomo dall’aria trasandata attende l’arrivo di qualcuno. A poco a poco entrano in scena diverse figure (Susan Sontag, Janis Joplin, Patti Smith), ognuno presentato dal nome che appare sullo schermo e da una breve clip di una vecchia intervista. “John Lennon never died” è lo slogan che appare scritto in digitale sulla parete e che viene ripetuto durante la discussione: è un ritorno agli anni Sessanta e al mito dei Beatles. I personaggi, ormai adulti, si confrontano di nuovo con i grandi miti della New Age, la ricerca dell’identità e lo slancio rivoluzionario per un mondo pacifico ed ecologico.
Gli hippies cresciuti ora devono fare i conti con una realtà totalmente opposta a quella che sognavano, sopraffatta dalle guerre e dalla pandemia, e sull’orlo di un disastro ambientale. Le telecamere in scena frugano nei volti e nelle loro verità, proiettando in primo piano gli occhi stanchi e lo sguardo disincantato. È anche il nostro, quello sguardo? Che fine hanno fatto le utopie della loro generazione? Per cosa hanno lottato veramente? Ha ancora senso parlare di sogni? Sono queste le domande che rimbalzano sulla scena, in una sorta di viaggio psichedelico collettivo. Con il lungo e ambizioso Imagine, il regista chiede una notevole prova di attenzione allo spettatore, costretto a concentrarsi costantemente su molti (troppi?) piani: la presenza in scena di dieci attori, l’utilizzo di telecamere e la proiezione su grandi schermi, dialoghi fitti e densi. Un ostacolo non da poco, in questo senso, resta anche la lingua: le traduzioni in sovraimpressione, in un’opera così densa di piani visivi e sensoriali e di impianto così fortemente testo-centrico, affaticano inevitabilmente la fruizione. Al punto da affievolire la potenza delle questioni politiche messe in campo.
- La distruzione del mondo in una forma-sonata
Adolf Bernhard Marx a metà Ottocento coniava l’espressione “forma-sonata”, mentre un altro Marx, Karl, nel 1867 pubblicava il primo dei tre volumi di Das Kapital (punto di partenza di un altro spettacolo presentato a VIE, Il Capitale di Kepler-452).
In Forma Sonata di Daniele Spanò video-arte, lirica e musica elettronica si fondono. Sulla scena (allestita presso il Drama Teatro di Modena) campeggia un polittico di quattro display, su cui vengono proiettati dettagli macroscopici del cielo dipinto da Giorgione da Castelfranco ne La Tempesta. La cantante lirica Arianna Lanci avanza davanti ai monitor e intona Piangon al pianger mio di Sigismondo D’India, rivolgendosi alle immagini in movimento. La mezzo soprano interagisce con la parete di cristalli liquidi (i suoi movimenti sono a cura di Alessandro Sciarroni) e con il sound design di Angelo Elle: mentre apre e chiude i pannelli-display, le immagini continuano a scorrere. Sono frammenti del quadro di Giorgione e affondi zoomati dei cieli veneziani dipinti da paesaggisti cinquecenteschi e seicenteschi. Il dialogo intessuto corporalmente e vocalmente da Lanci con i monitor si intensifica grazie al martellante susseguirsi di fulmini-led che illuminano a giorno la sala e al boato, a volte sommesso e a volte minaccioso, di tuoni.
Le videoriprese di Spanò e di Maria De Los Angeles Parrinello, che documentano lo straordinario e persistente innalzamento delle acque lagunari di Venezia nel novembre del 2019, catturano fortuitamente il duplice potere – allontanare e avvicinare – che si può ascrivere allo schermo: un lungo piano sequenza rimontato incornicia un gruppo di turisti a Piazza San Marco che, arroccati nella loro indifferenza e con smartphone alla mano, fotografano indolenti la sciagura che si perpetra sotto i loro occhi.
Sul finire della breve performance sui due monitor laterali appaiono i volti di un uomo e di una donna anziani: si tratta dei genitori di Spanò. Il loro sguardo attento e consapevole è in piena dissonanza con l’atteggiamento irresponsabile dei turisti. Nel doppio schermo centrale un minerale rotea su se stesso: il mondo potrebbe ridursi a questo? Calano il buio e il silenzio.
La differenza ontologica tra cambiamento e distruzione – sembra suggerire la forma-sonata di Spanò – risiede nella consapevolezza, nella presa di coscienza: cosa accade quando veniamo smascherati nella nostra indifferenza, nella nostra goffa dissimulazione di non responsabilità? La multisensorialità immersiva di Forma-sonata avvicina le orecchie e gli occhi del pubblico alla natura e agli stravolgimenti ambientali. Il tentativo di sensibilizzare in maniera fattiva alla stringente emergenza climatica, puntando su un mezzo – quello audiovisivo – che ha la paradossale e rovinosa tendenza a feticizzare le catastrofi, ammantandole di un fascino oltremodo scandalistico, è una sfida coraggiosa. Se troppo spesso il sensazionalismo-video spiana la strada al distacco, il medium può essere impiegato in modo tale da scongiurare vuote narrazioni ad effetto che inibiscono il pensiero critico e l’esperienza sensibile. Questa la scommessa (vinta) di Daniele Spanò.
- Le VIE del corpo danzante
Corpi. Fisicità. La sedicesima edizione di Vie, con il progetto Carne curato dalla coreografa Michela Lucenti (in scena al festival con Karnival di Balletto Civile) dedica uno spazio molto significativo alla danza contemporanea, sia italiana che internazionale. A inaugurare il festival è Elephant della coreografa marocchina Bouchra Ouizguen, in scena con la sua Compagnie O al Teatro Storchi di Modena. Tre donne marocchine, vestite con stoffe colorate, preparano la scena pulendola con stracci bagnati e spargendo incensi. Il palcoscenico è spoglio, l’ambiente è essenziale ed arioso, lo spazio, insieme concreto e astratto, è abitato dalla loro azione quotidiana. Ben presto le tre donne intonano una prima polifonia di canti tradizionali marocchini, senza l’ausilio di una base strumentale; altre ne seguiranno, talvolta unite a percussioni di vasi e tamburi, capaci di costituire una vibrante tessitura sonora. Una quarta donna, più giovane, entra in scena per una limpida sequenza di danza, con il volto coperto da un copricapo di paglia e una veste ampia e coloratissima. L’incontro tra la giovane performer e le altre donne sembra instaurare una dialettica tra contemporaneo e arcano, tra modernità e tradizione, tra diverse generazioni.
Mentre il movimento si fa pesante, strisciante – come si esponesse sempre più al contatto con suolo e alla forza di gravità – l’individualità delle quattro donne si fonde progressivamente in un corpo collettivo. L’immagine è quella di una enorme creatura, forse l’elefante del titolo. Emblema della memoria, l’animale incarna l’incontro tra due diverse generazioni marocchine, e tra due tradizioni coreutiche: dalla formazione francese ed europea della giovane danzatrice contemporanea, ai potenti registri espressivi della tradizione. Cambiamento e trasformazione sono una chiave per comprendere anche altre creazioni del progetto Carne (per esempio El Elogio de la fisura dalla spagnola Lorena Nogal); il punto di partenza di molte creazioni è infatti l’accettazione delle crepe e delle mutazioni che fanno parte della nostra esistenza, nella ricerca perpetua di una nuova versione di sé. Corpi umani, corpi deboli a volte, insicuri, soggetti a forze che li mettono alla prova, specchio della complessità e dell’incertezza del mondo contemporaneo: uno splendido omaggio alla danza e ai suoi meccanismi nascosti.
Beatrice Frattini, Giulia Govi, Maria Chiara Rossi
Questi contenuti sono esito di un progetto di formazione universitaria promosso da Insolito Festival (a cura di Associazione Micro Macro, referente del progetto Angela Forti) e dal Corso di laurea magistrale in giornalismo, cultura editoriale, comunicazione ambientale e multimediale dell’Università di Parma (referente la professoressa Roberta Gandolfi) e in collaborazione con Festival L’Altra Scena, Vie Festival e le riviste online Teatro e Critica, Altre Velocità, Stratagemmi.
in copertina: Éléphant, foto di Tala Hadid