Navid Navab non può passare inosservato: indossa una casacca di stoffa leggera a fantasia etnica, ha uno stravagante ciuffo di capelli ricci, come la cresta di un pappagallo esotico, occhi neri penetranti e il sorriso sempre pronto.
“Potrei farle qualche domanda sul suo lavoro?”
“Certo, sediamoci a terra a gambe incrociate e chiacchieriamo!”
Perché hai scelto la danza? Che ruolo ha nella tua ricerca artistica?
Ciò che mi interessa non è propriamente la danza, quanto il movimento in generale. Lavoro sul gesto, ci gioco, lo declino in nuovi orizzonti di possibilità. Se realizzato in modo fantasioso, il gesto può assumere infinite sfumature e conferire ai corpi altrettante gradazioni di esistenza. Nella mia ricerca conta molto anche la relazione fra movimento e suono, il legame che li rende una cosa sola, proprio come fa una metafora in poesia. I gesti generano suoni – che possono essere riprodotti e amplificati da un computer – ma poi è il movimento a modularsi per assecondare il suono e non è più possibile stabilire tra i due una gerarchia univoca.
Nello spettacolo Practices of Everyday Life|Cooking ci sono molti elementi umoristici o ironici. Che uso ne fai?
Me ne servo per trattare temi particolarmente ‘pesanti’, facendo in modo che il pubblico possa metabolizzarli. Lo humour aiuta a creare uno spazio in cui lo spettatore si lasci colpire emotivamente e inizi a pensare in modo diverso: ride, si rilassa, e in quel momento è pervaso da qualcosa di inspiegabile e meraviglioso.
In Practices of Everyday Life| Cooking, hai scelto di lavorare sul tema del cibo e della cucina. Perché?
Mi piace lavorare su elementi tratti dal quotidiano; in più la cucina implica una matericità con cui mi confronto da sempre. A questo si sommano altri aspetti interessanti che avvicinano il cucinare e la mia ricerca artistica: la combinazione di improvvisazione, tempismo e controllo. e poi quella multisensorialità (data dalla combinazione di gusto, aspetto, profumo) che mi auspico di raggiungere amalgamando suoni, gesti e immagini nei miei lavori.
Chiara Carbone
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MilanOltreView