Durante la tua masterclass hai affrontato il tema della consapevolezza del danzatore: il suo essere “corpo fluido in continua metamorfosi ed espansione in uno spazio denso e materico, che, scorrendo ininterrottamente intorno a lui, ne diventa prolungamento”. Suggestioni che hanno a che fare con la danza ma che richiamano, in qualche modo, la filosofia di Eraclito…
Provenendo da un liceo artistico non ho studiato filosofia da ragazza; come tutti, però, ho letto Siddharta e la scena dell’incontro col barcaiolo mi ha sempre colpito. Ho capito dopo che Hesse citava Eraclito introducendo l’idea del fiume che, scorrendo continuamente, diviene ma rimane lo stesso. Qualcosa di simile l’ho imparato come allieva di Nikolais (Alwin Nikolais è stato uno dei caposcuola della danza moderna americana ndr.): è come se la sua tecnica permettesse all’essere umano di concepire qualcosa di più che la sola materia corporea, consentendogli di entrare in comunicazione con forze universali, più grandi di lui. Risulta chiaro nella coreografia di Tensile Involvement, nella quale il coreografo americano, utilizzando elastici attaccati al soffitto e facendoli incrociare, aprire e aggrovigliare, voleva mostrare tangibilmente la dimensione invisibile della spazialità. Restando attaccata a questo elastico alto 12 metri sentivo che il mio corpo si espandeva oltre se stesso.

Quanto hanno influenzato gli studi in architettura sulla tua concezione di spazialità?
È stato mentre studiavo architettura che ho incontrato Nikolais, e grazie a lui ho unito tutti i miei amori: la filosofia zen, la pittura, la danza. Lui racchiudeva tutte queste cose. Ho lasciato quindi architettura e mi sono dedicata alla danza: del resto forma, tempo, spazio e dinamiche sono gli elementi che determinano non solo l’architettura, ma ogni momento della nostra esistenza. Se nella quotidianità ci servono per non inciampare, nella danza bisogna apprenderli con raffinata consapevolezza: quali forme si stanno assumendo, in quale spazio, in quale direzione, con quale tempo?

In Interrogai me stesso, che presenti quest’anno a MilanOltre, protagonista è Hal Yamanouchi, danzatore, attore, scrittore (e molto altro) di origini nipponiche, che conta ormai 73 anni. Cosa ti ha spinta verso di lui e come avete lavorato insieme?
Ogni volta che pensavo a questo lavoro chiudevo gli occhi e vedevo un orientale anziano. Così ho pensato ad Hal. Insieme poi ci siamo chiesti come fosse possibile prepararsi al prevedibile, a ciò che è quotidianamente ripetuto, e all’imprevedibile. Abbiamo escogitato allora un gioco di meditazione aperta che prevede che lui passi attraverso le sue memorie e indaghi le sue varie nature, divenendo talvolta animale, talvolta bambino. Trovo che il suo tratto tremolante, la sua incertezza e vulnerabilità nel riflettere sulla vita abbiano molto arricchito la qualità del lavoro.

Livia Torchio e Caterina Piotti


Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MILANoLTREview