A volte, oltre ad essere coreografo sei anche interprete delle tue creazioni: cosa cambia nel modo di lavorare? E cosa preferisci?
Quando insegno una coreografia ai danzatori si tratta sempre di una “trasmissione”: cerco di trovare nei confronti di chi esegue una dimensione che concili corpo e tecniche, ma che consenta anche di “introiettarmi” in loro e, in un certo senso, di comprendermi. I danzatori con cui lavoro devono riuscire a far fuoriuscire dal mio corpo qualcosa che per me è molto intimo e personale. Quando invece sono anche interprete, la dimensione fisica assume una valenza importante: lavorando con il gesto, il vissuto e il sentire, il mondo cambia. Non voglio dire cosa sia meglio o peggio, sono due modi completamente diversi che mi piace portare avanti contemporaneamente, perché quello che posso con l’uno, non lo posso fare con l’altro.
I danzatori di Petruška indossano maschere e trucco pesante, che li fanno apparire come “identità” non definite: umani, burattini e animali allo stesso tempo. Qual è la tua concezione di “maschera”: è uno strato posto sopra qualcosa di preesistente o uno strumento performativo che partecipa al costante processo di formazione dell’individuo?
Una concezione debole di identità non fissa l’individuo ma lo apre alle migliaia di influenze che gli si presentano, evitando l’irrigidimento su un unico elemento. Detto questo, penso alla descrizione del mascheramento nelle tribù ancestrali dell’Amazzonia compiuta dall’antropologo francese Lévi-Strauss, in particolare alla funzione sociale del trucco, strumento che rende manifesti i passaggi evolutivi dalla vita infantile alla vita adulta. Il make-up è una protesi del corpo che, straordinariamente, permette agli individui di entrare in dialogo con il mondo e così di diventare ciò che realmente sono. In Petruška i costumi sono diaframmi trasparenti che lasciano intravedere i corpi; le maschere del volto dai colori accesi, che riprendono la pittura di primo Novecento, sono invece “baconianamente” concepite per deformare alcuni lineamenti così da rendere irregolare la simmetria del volto.
I tuoi “laboratori” di danza, da ormai oltre dieci anni, sono aperti a tutti i “cittadini”, individui ogni volta differenti con i quali condividi un tempo e uno spazio comuni. Che legame si crea con loro e che importanza dai a questo lavoro?
Ho cercato una vicinanza con le persone comuni perché vedo nell’assenza di codici e nella forte presenza di esperienze un atlante di fragilità, imperfezioni ed errori. Mi diverto a giocare con loro per rendere queste debolezze degli elementi forti di cui è possibile gioire in maniera consapevole. I laboratori con i cittadini hanno influenzato moltissimo il mio vocabolario coreutico, che ho approfondito e sviluppato proprio grazie alla particolare attenzione ai dettagli praticata insieme a loro.
Livia Torchio e Caterina Piotti
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MILANoLTREview