Di Anton Čechov
Regia di Claudio Orlandini.
Visto al Teatro Leonardo di Milano_ dal 12 al 24 novembre 2013

È nota la diatriba fra Čechov, che si ostinava a chiamare commedie le sue opere teatrali, e Stanislavskij, che aggiungeva nel copione pause di sospensione, che Anton Pavlovič puntualmente cancellava. Furono tuttavia le messe in scena del Teatro dell’Arte, cioè di Stanislavskij, che gli sopravvisse di parecchi anni, a dare a Čechov notorietà in tutto il mondo.
L’allestimento di Comteatro tenta, se non una restituzione filologica delle intenzioni dell’autore, almeno una proposta alternativa a quelle, intrise delle languidezze velleitariamente stanislavskiane, che troppo spesso ci vengono ammannite. Il risultato può anche sconcertare, ma mi sembra degno di attenzione e rispetto.

È vero che non tutti gli interpreti, ancorché volonterosi, sono in parte; che si sacrifica un personaggio minore, Ferapont (ma esistono, nel teatro di Čechov, personaggi minori?); che la pronuncia dei nomi russi è quantomeno disinvolta. Ma il ritmo teatrale è serrato, senza sbandamenti, e per quasi due ore e mezza lo spettatore segue con partecipazione una vicenda nella quale, come spesso in Čechov, non sembra succedere nulla; nondimeno è catturato da una gestualità sopra le righe, da una la recitazione concitata, non realistica, secondo una scelta interpretativa cui lo spettacolo rimane coerente, senza cedimenti, fino alla fine.
La regia di Claudio Orlandini, peraltro rispettosa del testo čechoviano fino al vezzo filologico di far recitare anche alcune didascalie, scioglie l’apparente contraddizione tra la banalità di un vano, insignificante chiacchiericcio e la ricorrente, impotente domanda che si pongono i personaggi sul senso di tutto ciò. È Čechov stesso a scrivere “… nella vita […] ben raramente si dicono cose intelligenti. Per lo più si mangia, si beve, si bighellona, si dicono sciocchezze. Ecco cosa bisogna far vedere in scena”.

Un’atmosfera quasi da vaudeville, con coretti dall’intonazione non sempre perfetta, paradossalmente esalta anche le profezie sui rivolgimenti sociali che stanno per investire la Russia, di cui Anton Pavlovič sembra abbia voluto disseminare il testo: “Si sta preparando una forte e sana tempesta, che arriva, che è già vicina, e che presto spazzerà dalla nostra società la pigrizia, l’indifferenza, le prevenzioni contro il lavoro, il putridume della noia. Io lavorerò, e fra venticinque, trent’anni al massimo, lavoreranno tutti”, dice Tuzenbach nel primo atto. Uno squarcio di luce sul futuro, tanto più sorprendente, quasi inquietante, se pensiamo che la stesura di Tre sorelle (1900/1901) precede di qualche anno anche le primissime avvisaglie della rivoluzione.
E trova un suo senso anche quell’ambiguo, oscuramente fascinoso finale, in cui l’anziano Čebutikin, poco dopo aver annunciato la morte di Tuzenbach, continua a canticchiare; lo sciocco Kuligin continua ad essere allegro e sorridente; e Olga, stretta alle sorelle, alterna domande di angoscioso spessore esistenziale ad osservazioni sulla musica della banda, così gaia.
Uno spettacolo che forse a molti non piacerà, che farà discutere: troppo radicata è, nel pubblico, l’abitudine ad uno stereotipo čechoviano che, dalla lettura di Comteatro, è lontano anni luce. Ma sono convinto che al dottor Čechov, con quel suo sguardo che, dietro i pince-nez, nascondeva una segreta, sotterranea ironia, questa interpretazione delle sue Sorelle non sarebbe spiaciuta.

Claudio Facchinelli