Vienna, novembre 1972: nasce il piccolo Bernhard Studlar.
Vienna, 1991: con un discreto salto temporale, il non più piccolo Bernhard Studlar studia teatro, filosofia e giornalismo all’Università.
Vienna, 1995: un giovane Bernhard Studlar fresco di laurea inizia a lavorare come dramaturg al Theater der Jugend.
Berlino, 1998: Bernhard Studlar saluta con un «A presto» la sua Vienna e, svoltato l’angolo, va a studiare scrittura scenica all’Università delle belle arti.
Berlino, 2000: il di-nuovo-studente Bernhard Studlar e l’amico-studente Andreas Sauter iniziano a scrivere i primi testi teatrali a quattro mani.
Vienna, novembre 2002: Bernhard Studlar ritorna a casa con 30 anni precisi spaccati, una nuova laurea in scrittura scenica e un testo, Transdanubia Dreaming, vincitore del festival Heidelberg Stückemarkt, che debutterà nel gennaio successivo al Burgtheater.
Da questa data, Bernhard Studlar non si muoverà più da Vienna.
Lo avevamo già anticipato nell’editoriale di questa nuova esplorazione del Calapranzi: tra i vari autori che abbiamo deciso di osservare, Bernhard Studlar merita una particolare attenzione. Non solo per i suoi validissimi lavori, ma anche per come ha regalato a Vienna – sua città di nascita e di elezione – buona parte della sua attività di autore e uomo di teatro, attraverso la creazione di quel Wiener Wortstätten, che ha letteralmente rianimato la scena indipendente viennese.
E proprio a partire dal fermento di questa fucina-artistica, si può osservare come Studlar abbia impostato il dialogo drammaturgico fra autore e pubblico, incominciando da coloro che potrebbero essere indicati come i suoi primi interlocutori: i bambini. La doppia sfida che si pone l’autore viennese è proprio questa: come “educare” un pubblico giovane alla frequentazione del teatro, mantenendo divertente e intensa l’esperienza sul palcoscenico anche per i genitori? Come fare del teatro un luogo dove una platea il più ampia possibile possa mettere in dubbio e ridisegnare la propria idea di realtà? Perché, sia chiaro fin da subito, i testi della trilogia per l’infanzia di cui ci occuperemo tra breve – Dietro l’angolo, A presto e Buon appetito! – non sono semplici opere per bambini ma, come indica l’autore stesso in una nota, «per un pubblico dai 3 anni in su».
Scrivere dall’infanzia in su non è facile e Studlar, nella sua sfida col giovane pubblico, decide di cominciare dallo spazio e dal tempo, le due dimensioni con cui per primi i bambini devono confrontarsi e quelle che ancora oggi fanno spaccare la testa a fisici e matematici.
Dietro l’angolo (Um die Ecke), primo capitolo che inaugura la trilogia nel 2010, affronta proprio il tema dello spazio e della sua scoperta. Nella breve premessa al testo, il drammaturgo lascia ai lettori e agli interpreti un piccolo frammento di poetica. Scrive: «Dato che questo è il mio primo tentativo di scrivere un testo letterario per un pubblico di bambini, spero che gli attori, e il pubblico poi, si divertano con questo spettacolo tanto quanto io mi sono divertito a scriverlo». Dopo di che l’opera prende avvio, il sipario si alza e sul palcoscenico troviamo due personaggi, A e B. Nel testo sono senza nome e senza sesso, chi li interpreterà sul palco poco importa: l’azione deve venir prima dell’identità affinché tutti possano riconoscersi in essa.
Dunque in scena ci sono A, B e null’altro che un cubo. Potrebbe sembrare un inizio in minore, poco adatto a raccontare una spazialità ampia, multiforme, se non fosse che il cubo, proprio per la sua geometria, è un luogo pieno di angoli, di svolte, e quindi di sorprese. A e B stanno giocando a nascondino davanti al cubo, e per ripararsi agli occhi del proprio compagno di giochi dovrebbero girare l’angolo, andare cioè nel “nulla”, verso l’ignoto. E l’ignoto fa paura anche se né A né B sono disposti ad ammetterlo. I due prendono tempo con azioni apparentemente insensate, come illogiche appaiono le loro battute e casuale sarà anche la modalità di esplorazione che stanno per intraprendere. Del resto, sembra suggerire Studlar implicitamente, c’è davvero logicità nello spazio sconosciuto oppure è l’uomo che, conoscendolo, cerca di organizzarlo secondo il proprio senso logico?
A e B finalmente prendono coraggio e sbirciano dall’angolo ed ecco percepiamo con loro una selva di suoni e di rime, che giocano coi versi di animali e con la parola “angolo” – in italiano è difficile conservarne intatta la stessa musicalità. Questa conferma sonora di una presenza nascosta dietro l’angolo incuriosisce i due che iniziano la loro esplorazione dei lati del cubo, dopo aver rabbonito le belve nascoste con dei biscotti «a forma d’angolo». Ad ogni svolta viene chiesto allo spettatore di immaginare quello che non c’è: una pozzanghera dove A e B si sporcano di fango oppure un mare pieno di squali o un prato da picnic invaso da formiche. Ma le possibilità sono infinite: il cubo è uno spazio tridimensionale che può avere porte, finestre, può essere scoperchiato, smantellato in base alle necessità. Potrebbe essere persino scalato! E infatti A e B salgono sempre più su, fino ad arrivare al cielo da dove gli angeli custodi vegliano sulle persone. A quel punto, spintisi fino al limite massimo e superate tutte le paure, non resta loro che tornare indietro, seguendo un filo di Arianna che si srotola, angolo dopo angolo, attorno al cubo, fino a riportarli al punto da cui erano partiti: il teatro. Sono di nuovo all’inizio o sono giunti alla fine? Sono all’ingresso o all’uscita? Cosa importa – sembra suggerire Studlar – non è poi tutto la stessa cosa? Infatti A e B possono ricominciare a giocare a nascondino. E mentre A e B percorrono prima in un senso e poi nell’altro tutte le facce del cubo, scoprendo cose nuove o dimenticate, il pubblico, diviso in grandi e piccini, percorre due strade convergenti che portano i due estremi ad avvicinarsi. I piccoli vedono nelle peripezie dei due attori la storia del loro percorso nel mondo, della loro scoperta di ciò che esiste e, passo dopo passo, assieme ad A e B crescono e si spingono verso la soglia degli adulti, domando le loro paure e organizzando lo spazio. Gli adulti invece si muovono a ritroso, riscoprendo lo stupore dello sguardo originale ed ingenuo che solo i bambini hanno, che anche loro da bambini avevano e che durante lo spettacolo riescono a recuperare. Ancora una volta: siamo all’inizio o alla fine?
Il secondo testo, A presto (Bis später), scritto a tre anni di distanza dal primo, ricuce la distanza proseguendo idealmente da dove Dietro l’angolo si era interrotto. Così il bambino che ha scoperto lo spazio può ora dedicarsi alla scoperta del tempo. Numerosi sono i punti di contatto tra le due opere, soprattutto da un punto di vista formale: l’uso del linguaggio che sconfina sovente nell’assurdo, ma che cela una vitalità inventiva tipica dell’infanzia, le atmosfere paradossali e clownesche e l’assenza di personaggi ben definiti, che siano altro dagli attori in scena.
Ma se giocare con la spazio significa portare il pubblico in un viaggio visivo e immaginativo, giocare con il tempo vuole dire fare i conti con una dimensione estremamente sensibile, intima e relativa, andando a scomodare grandi personalità del Novecento quali Einstein, Proust e Woolf. Lasciate le lettere, gli interpreti di A presto sono indicati da numeri e accompagnati da una indicazione di moto: 1, quello che parte; 2, quello che resta (in attesa?) e 3, quello che passeggia. Indicazioni che, se valgono per i personaggi all’inizio dello spettacolo, vengono velocemente superate man mano che il tempo passa. Nelle prime scene 1 è caratterizzato da una certa fretta di partire per recarsi al lavoro, mentre 2 è tratteggiato come un personaggio sonnolento che fatica ad alzarsi dal letto e che vuole trattenere 1 il più a lungo possibile. Non ci riuscirà: il lavoro di 1 – i genitori lo sanno bene – non può aspettare e 2 dovrà attendere pazientemente il suo ritorno.
Questa attesa viene infranta dall’arrivo di 3. 2 e 3 passano un po’ di tempo assieme in giardino per una durata indefinita, in una dimensione cronologica distorta, tanto che mentre loro conversano le mele dell’albero accelerano la loro crescita e vanno dall’essere acerbe all’essere mature ed infine marce in pochissimi istanti. Aiutati dalla Natura, 2 e 3 sperimentano così il tempo ciclico delle stagioni e apprendono che, anche da fermi, il tempo si muove. Mentre 2 viene a conoscenza di questo scorrere eterno, 1 si trova in una situazione opposta, sospeso nel tempo lungo e monotono del lavoro, che passa in attesa prima della pausa a poi della fine della giornata. A questa attesa che caratterizza l’adulto e non più il bambino, si sovrappone, come per interferenza, un’attesa di un significato diverso: quella dell’amore. Nella pausa lavorativa 1 incontra 3: però mentre per 1 il momento è quello giusto (finalmente le loro strade si sono incrociate: 3 è arrivato proprio mentre 1 era in attesa, forse proprio di lui), per 3 non lo è affatto. Sul copione, dice 3, c’è scritto altro: hanno sbagliato scena, non è quello il momento in cui incrociarsi. 3 allora, sempre passeggiando, va avanti ma, allo stesso tempo, torna indietro incontrando2 per la seconda volta. Ma il 2 che incontra non è più lo stesso di prima: non è un 2 che aspetta ma è un 2 che passeggia, solo che passeggia nel tempo.
Da A presto, scena 6
3. Sono tornata!
2. Eri andata via?
3. Non ti sei accorto che ero uscita di scena?
2. No. Hey, sai cos’ho sentito dire? Che se cammini sempre dritto ritorni al punto da cui sei partito.
3. Non è possibile.
2. E perché no? Anche tu sei appena…
3. Senti. Non puoi camminare sempre dritto. (Cammina dritto fino alla parete più vicina.) Che ti dicevo? Non posso più andare avanti!
2. Sì, ma teoricamente è possibile. Guarda. (Disegna un grande cerchio a terra.) Allora, questa è la Terra. E adesso cammino, cammino, cammino finché non arrivo alla fine, che è da dove sono partito.
3. Non fare lo spaccone. Non volevi farmi vedere un’altra cosa?
2. Giusto. Non crederai ai tuoi occhi. Attenzione. Concentrazione. Occhi chiusi… (3 chiude gli occhi) eeeeeeeee… bingo!
2 mostra una piccola clessidra a 3.
3. Aha.
2. Ho il piacere di presentarti la mia macchina del tempo.
3. Che?
2. La mia macchina del tempo.
3. Che scherzo è questo? Ho la stessa identica cosa, mi serve per misurare il tempo quando mi lavo i denti.
2. Ottimo. Fa’ vedere. Dai, apri la bocca.
3. Aaaaaa.
2. Perfetto. Tutto splendido.
3. Grazie.
2. Di niente. Per quanto li spazzoli i denti?
3. Finché la sabbia non ha attraversato la clessidra. Tre minuti.
2. Così tanto?
3. Sì. Sono una meraviglia le clessidre, per esempio nella mia c’è della sabbia verde.
2. Bello, questa invece è… (colore) e mi permette di viaggiare nel tempo.
3. Non ti credo.
2. Per il momento. Aspetta. Sei pronta?
3. A cosa?
2. A un viaggio nel futuro!
3. Ehm… sì.
2. Fantastico.
3. Di base sì, ma…
2. Occhi chiusi, per favore.
3. Aspetta. Come…
2. E dai, chiudi e non avere paura, vengo con te!
3. E va bene.
2. Ti tengo ferma.
3. D’accordo.
2 si mette dietro a 3 e si tiene forte. 2 gira la clessidra.
2. Allacciate le cinture, inizia il conto alla rovescia: 10, 9, 8, 7: galletti, la gallina ha fatto l’uovo, esce il pulcino, diventa gallina, ritorna uovo!
Trambusto, spettacolo di luci con tutti gli annessi e connessi
2. Eccoci arrivati. Benvenuti nel futuro.
3 si guarda intorno Wow!
2. Bello, vero? Benvenuta nel futuro.
Il lavoro che Studlar svolge sul tempo è al contempo semplice e complicato. Non v’è una grande novità nello scoprire che i personaggi – all’interno di un testo teatrale e non – cambino, si evolvano con lo svolgersi dell’opera, ergo col passare del tempo. In A presto però questo cambiamento corrisponde ad uno sguardo sempre nuovo che ogni spettatore, partecipe della vicenda dell’uno o dell’altro personaggio, dà al tempo, anche in base al suo personale trascorso. La “routinarietà” dell’adulto, per il quale il lavoro può diventare un eterno presente fatto di quarant’anni, dall’assunzione alla pensione, lo avvicina all’attesa atemporale del bambino piccolo che ancora non va a scuola e vive un lungo ripetersi di gesti sempre uguali degli adulti. Ancora una volta, e molto di più che in Dietro l’angolo, le distanze si accorciano e ciascuno, scoprendosi contemporaneamente in 1, 2 e 3, esplora una dimensione temporale complicata ed ingarbugliata come la matassa che già Bergson aveva descritto, dove l’intrico di fili stringe fortemente bimbi, genitori e nonni uno a fianco all’altro. A cullare dolcemente le divagazioni temporali di 1,2 e 3 Studlar scrive anche delle canzoni, momenti di riflessione sul tempo ed escamotage che oltre a rendere più piacevole l’azione scenica fa di ripetizioni, ritornelli e melodie un ulteriore strumento di approfondimento della dimensione temporale.
A chiudere la trilogia ci pensa invece Buon appetito (Mahlzeit), un lavoro profondamente diverso dai precedenti, dove l’elemento concretissimo del cibo sostituisce i temi più astratti. Restano tuttavia i divertimenti linguistici cari a Studlar, che investono testo e contenuti, ma in una cornice fittizia inesplorata che gioca apertamente con la metanarrazione.
Buon appetito viene infatti presentata come un adattamento teatrale di un’opera inventata: Molo e la ricerca dell’uovo perduto di Bernardo di Saltimbocca. A segnare un ulteriore scarto coi precedenti capitoli della trilogia è una lista di ben sette personaggi, dotati di nome e talvolta perfino di cognome e occupazione. Ciononostante, la storia, che segue le vicende del cuoco Molo alla ricerca di un uovo per la sua amata Colomba (“Gallina” nell’originale tedesco), è in realtà quasi completamente raccontata da un narratore di nome Paolo, che presenta al pubblico vicende e personaggi, lasciando loro solo pochi scambi di battute e svariati siparietti cantati, brevi arie di brechtiana memoria.
Da Buon appetito, scena 2
Paolo. Ma Molo, il miglior cuoco del mondo, non è felice. C’è qualcosa che lo turba, non lo molla, lo mordicchia dentro… Gli manca qualcosa. Ma che cosa? Per riflettere in tutta tranquillità, Molo si ritira in un giardino pieno di erbe aromatiche. Immerso nei suoi pensieri canta “Manca qualcosa”.
Molo. Latte, zucchero e farina
Burro e un pizzico di sale
Pepe e via, tutto nel mixer
Mescolare, un po’ di strutto …
Ma manca qualcosa
Ma manca qualcosa …Paolo. Ed ecco che, all’improvviso, tra le erbe aromatiche del giardino di Molo compare la povera ragazza dall’aria triste. È infelice e ha fame. Eppure è sempre bellissima, bella come la più bella delle principesse. Si inginocchia e implora Molo di cucinare qualcosa per lei. Nell’istante in cui la vede, cioè SUBITO!, Molo si innamora perdutamente della ragazza e lei gli rivela il suo nome: Colomba. In quel momento Molo capisce qual è l’ingrediente che gli mancava tanto: un uovo! Così promette alla ragazza di prepararle le frittelle migliori del mondo: le frittelle, infatti, contengono una porzione di felicità e mangiandole nessuno si sentirà più infelice. Ma gli serve un uovo. Insieme cantano il duetto “Mondo, ci sei?”
Al gioco metanarrativo innescato da Paolo – che a volte si posiziona sopra la narrazione e a volte dentro di essa interagendo direttamente coi personaggi – si affianca la riflessione principale del testo: quella sul cibo e la sua produzione nel mondo contemporaneo. Colomba/Gallina è una ragazza che non riesce a procurarsi del cibo e, cosa ancora più bizzarra, non sa nemmeno cosa sia un uovo; ragione per cui si mette alla ricerca di questo prezioso tesoro della cucina assieme al cuoco Molo. I due attraversano prima la “città delle grandi produzioni in serie”, regno delle industrie dove tutto sa di plastica e la forza lavoro è data da bambini sfruttati; poi passano per la campagna del chilometro zero dove vive il Contadino Rapa e dove esistono solo gli squisiti prodotti della terra, ma non ci sono uova. Le peripezie continuano, riassunte velocemente dal narratore, quando compare sulla scena, chiedendo letteralmente scusa per il disturbo, il signor Pomodorino, un personaggio che arriva da molto lontano e rappresenta i prodotti esotici di importazione. Paolo lascia spazio alla digressione/dialogo fra Pomodorino e Molo che discutono della differenza fra i mirtilli del bosco e i mirtilli delle serre, dimenticando la missione principale e allargando il problema della reperibilità degli alimenti nel mondo contemporaneo. Quando il tempo dello spettacolo sta per finire, Paolo rimette tutti in riga e spinge forsennatamente la narrazione ad un finale dove, con uno svelamento tipico da deus ex machina, rivela dove trovare le uova. Queste vengono allora facilmente rubate dal cuoco e utilizzate per cucinare le frittelle per l’amata Colomba/Gallina, che può scoprire il sapore sano dei cibi veri.
Sicuramente il meno filosofico dei tre, Buon appetito sposta il momento extra-logico e quasi assurdo, presente in Dietro l’angolo e A presto, dall’intrinseco del tema all’estrinseco della forma per aprire la riflessione ad un problema tanto discusso e di attualità quale quello del cibo, ed educare insieme bambini e adulti ad una nuova sensibilità verso il bisogno primario di nutrirsi.
É infatti – forse prima ancora della conoscenza dello spazio e del tempo – il cibo l’elemento con cui il bambino viene in contatto. Studlar vira nell’ultimo capitolo della trilogia verso un argomento concreto e sente la necessità di calarlo maggiormente nel presente rispetto ai due testi precedenti. Ma anche con un tema così cogente come l’approvvigionamento di cibo, resta un sorriso di fondo con cui non solo l’autore ma anche il lettore (e quindi lo spettatore) può avvicinarsi al testo. Studlar sembra suggerire che i problemi reali, come anche quelli astratti, vadano affrontati con una certa leggerezza. Ed è proprio grazie a questa frequentazione col teatro per bambini, che Studlar sembra trovare, al termine di questo percorso quinquennale di scrittura, la leggerezza per affrontare gli aspetti “più seri” dell’oggi. Il suo sorriso è quello fiducioso di chi, dati gli strumenti con cui leggere il mondo alle nuove generazioni, mette poi nelle loro mani i problemi che si troveranno a dover affrontare, sperando che lo stupore e la meraviglia del teatro abbiano insegnato loro come trovare quelle soluzioni che per la sua di generazione sono ancora inimmaginabili.
Gianmarco Marabini