In uno dei libri più famosi di letteratura per l’infanzia, Grammatica della Fantasia, Gianni Rodari suggerisce un esercizio per allenare la propria creatività: è il cosiddetto “binomio fantastico”, un espediente che consiste nell’accostare due parole che nulla hanno a che fare l’una con l’altra con lo scopo di innescare collegamenti inconsueti e dare origine a narrazioni svincolate da riferimenti banali, autoreferenziali o semplicemente già esplorati.
Di binomio fantastico si tratta, senza dubbio, quello che ci regala il coreografo Saburo Teshigawara con Tristan and Isolde, accostando la cultura performativa contemporanea giapponese a Wagner e in particolare scegliendo il Tristano, l’opera che decreta la chiusura della musica romantica e che muove i primi significativi passi verso il Novecento, scardinando il sistema tonale utilizzato in tutta Europa nei secoli precedenti.
Già sulle note del primo accordo, quello che in gergo è chiamato l’accordo di Tristano e costituisce il leitmotiv dissonante dell’opera, si percepisce che è in atto una sperimentazione: in risposta alla vastità incontenibile della musica, i movimenti dei performer rimangono controllati, padroneggiati sia nella lentezza sia nelle improvvise convulsioni come anche vogliono il Buto e il Kabuki, danze tradizionali giapponesi che Teshigawara fonde con il lessico performativo contemporaneo. A differenza di come forse farebbe un performer occidentale, i due danzatori in scena non lasciano che la musica prenda possesso del loro corpo ma, al contrario, ne “processano” l’energia, canalizzandola in movimenti compiuti. A rendere il tutto più surreale resta il fatto che, pur danzando a pochi millimetri di distanza, Teshigawara e Sato non si sfiorano mai, fino alla conclusione dell’opera: sembra quasi che agiscano all’interno di piani diversi, di layer che solo lo spettatore, dalla sua posizione, riesce a vedere sovrapposti in un’unica immagine.
Ma l’ossessione per la tecnica non è l’unico chiodo fisso del coreografo giapponese: la scenografia dello spettacolo sul palco di Triennale Teatro è altrettanto curata e il gioco di luci e di buio si rivela fondamentale per amplificare la dimensione simbolica della rappresentazione, preponderante su quella narrativa.
Già Wagner, del resto, nello scrivere la musica e il libretto del Tristano, sceglieva di utilizzare il buio e la luce sia come figure retoriche musicali, sia come simboli della dicotomia tra i personaggi e dei temi cardine dell’opera: amore e morte. I danzatori si muovono allora in una coltre di buio e, a tratti, appaiono come scatti di una serie fotografica, immortalati dalla luce dei faretti “sagomati” per illuminare solo alcune specifiche aree del palco. Il buio non rappresenta una condizione di assenza quanto piuttosto, dal punto di vista estetico, il brodo primordiale dove si generano nuove e suggestive immagini e, dal punto di vista simbolico-narrativo, lo stato in cui agiscono e a cui tendono i personaggi, cioè l’estasi tragica.
C’è però un elemento che non permette al potenziale dello spettacolo di dispiegarsi nella sua totalità: per ragioni tecniche, la musica lirica su cui i performer danzano non è suonata dal vivo, non ci sono né i cantanti né l’orchestra che, invece, è uno dei fattori innovativi dalla musica wagneriana rispetto ai predecessori.
Inventore del “golfo mistico”, buca dentro la quale l’orchestra “scompare” da fine Ottocento in poi, Wagner aggiunse infatti all’organico sempre più strumenti, per avere più colore e sfumature nel suono. La registrazione dell’opera, al contrario, provoca un appiattimento sonoro che si sente soprattutto negli acuti e che ridimensiona progressivamente la poeticità della rappresentazione fino all’ultima aria, la morte di Isotta. Sui vaneggiamenti della principessa celtica morente, infatti, i bassi vengono a mancare e rimangono i soli fiati come se Isotta stesse raggiungendo Tristano in un posto senza tempo.
Lo spettatore, seppur coinvolto emotivamente dall’epilogo tragico della vicenda, rimane in osservazione e non compie l’ultimo decisivo passo, la completa commozione. Come anche il coro nell’antica Grecia, la presenza fisica degli orchestrali – emozionati essi stessi nell’atto performativo – è fondamentale per elaborare collettivamente questo lutto tragico, che non è contingenziale ma parla a tutta l’umanità.
Emanuela Gussoni
Tristan and Isolde
di Saburo Teshigawara
Musica: estratti dall’opera Tristan und Isolde di Richard Wagner
Coreografia, design luci: Saburo Teshigawara
Con: Rihoko Sato, Saburo Teshigawara
Produzioni: KARAS
Visto a Triennale Milano_il 22 novembre 2019