Entriamo nella Sala Teatro del LAC, trovandola in versione ridotta. Possiamo scegliere dove sederci, dato che i (pochi) posti non sono numerati; è infatti stata montata una piccola platea a ridosso del proscenio. Non è un espediente nuovo per il “padrone di casa” Carmelo Rifici – regista, insieme ad Andrea De Rosa, di questo spettacolo – dato che ne aveva già fatto uso, ad esempio, in Avevo un bel pallone rosso (stagione 2018-19). Tuttavia sortisce un discreto effetto: crea da subito un’impressione intima, raccolta, che ci predispone all’introspezione.Quando gli attori entrano in scena, tra il pubblico serpeggia ancora un certo brusio. Uno di loro solleva un pannello truciolare della scenografia, poi lo lascia ricadere; si ode un tonfo sordo e simultaneamente le luci della platea si spengono. Finalmente comincia Processo Galileo.

A tre personaggi storici (Galileo Galilei, sua figlia e un suo discepolo) se ne contrappone un quarto che simboleggia un’intera istituzione: la Chiesa, interpretata da Milva Marigliano. All’attrice, la quale dominerà lo spazio scenico nel corso di quasi tutto lo spettacolo, saranno in seguito affidati altri due ruoli. La prima trasformazione avviene mentre lo scienziato sta abiurando: lei si toglie il mantello dell’istituzione clericale e cambia personaggio, diventando una donna comune, una madre. È il primo di numerosi momenti in cui ci raddrizziamo sulla sedia, costretti a elaborare nuove inferenze per dare un senso a ciò che accade in scena. Capiamo che i due registi ci hanno catapultati nel presente e, dopo qualche altro indizio, comprendiamo il valore drammaturgico della scenografia: la vicenda si svolge contemporaneamente in un’ambientazione reale (la casa di Angela, una ricercatrice scientifica) e in una immaginaria (un orto cassonato in stile contemporaneo, in cui la protagonista fa dialogare alcuni “fantasmi”).

Nell’orto la defunta madre di Angela apre la comunicazione con Galileo, mandando in cortocircuito la linearità temporale. Se la prima parte dello spettacolo ci era parsa una ricostruzione storica, uno sguardo retrospettivo sulla nascita della scienza moderna, d’ora in avanti assistiamo a una continua commistione tra passato e presente, che diventa vieppiù complessa: Angela e Galileo discutono in toni accademici sulla contemporaneità, interrotti da qualche battuta molto più religiosa e intuitiva della madre. Noi ne sorridiamo un po’ turbati, benché in realtà ci stia guidando verso una delle principali chiavi di lettura dello spettacolo.

Marigliano interpreta infine un terzo personaggio, riconducibile – senza grandi sorprese – a una delle maggiori opere brechtiane: Vita di Galileo. Inizialmente, il confronto con Brecht era stato rimandato grazie all’utilizzo di testi originali del Seicento (lettere, saggi e atti processuali); finché, nell’ultima parte, la nostra attrice veste i panni di una contadina seicentesca che – dopo aver udito che il cielo non è fisso e immutabile – vede crollare ogni sua certezza ed entra in crisi, esattamente come preannunciava il Monacello nell’opera di Brecht, quando metteva in guardia lo scienziato sulle possibili conseguenze delle sue teorie.

In Processo Galileo, però, i drammaturghi Dematté e Sinisi fanno un passo ulteriore. Aggiungono un ribelle diacronico, simbolo di tutti i ragazzi che, cercando di opporsi al progresso tecnologico in nome di una vita a misura d’uomo (anziché di macchina), hanno trovato la morte. E, per l’ennesima volta, noi non troviamo pace sul seggiolino: che sia lui il vero eretico? Oggi, infatti, il metodo scientifico è ormai istituzionalizzato e sta alla base del paradigma politico ed economico.Sicché, al termine dello spettacolo, usciamo dal teatro con una domanda insoluta: qualora ci accorgessimo che la scienza moderna non è in grado di rispondere a tutte le necessità umane, e di alleviarne le inquietudini, ci sarebbe ancora consentito di abiurarla, maledirla e detestarla? Di trovare, per alcuni ambiti della vita, un’alternativa?

Andrea Mazzoni


Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico LACritica