di Sandro Mabellini
visto al Teatro Litta di Milano _ 27 novembre-5 dicembre 2010
Da quando Michela Murgia ha deciso che Il mondo deve sapere, il call center è diventato luogo simbolo del precariato. Immaginato da Virzì come un capannone luminoso, paradiso in terra e insieme inferno, è un passaggio obbligato per chi ha Tutta la vita davanti!. Chi, massa di più o meno giovani, pur di un lavoretto vive in bilico, barcollando fino a toccare gli estremi per la Fuga dal call center. È la Generazione mille euro che, dai libri al cinema, è arrivata sul palcoscenico. Al Teatro Litta di Milano, dopo la prima nazionale al Napoli Teatro Festival 2010, Sandro Mabellini porta in scena Tu (non) sei il tuo lavoro. Titolo giustamente ambiguo, adatto proprio a ricalcare la condizione di chi un giorno ha un lavoro e quello seguente lo cerca, la frase (con parentesi) sintetizza bene il contenuto del testo omologo, scritto da Rosella Postorino nel 2009. In quell’anno infatti si svolse il workshop Working for Paradise, organizzato dal Napoli Teatro Festival Italia e dall’associazione culturale berlinese Heiner Müller Gesellschaft. Agli autori italiani partecipanti venne chiesto di descrivere in tre testi precariato, disoccupazione e mondo del lavoro di oggi, mentre i tedeschi si concentrarono sull’analisi de Lo Stakanovista di Heiner Müller, uno sguardo sul lavoro scritto nel 1956. Al termine del workshop, un bando di concorso indirizzato a giovani registi scelse il progetto che avrebbe messo in scena Tu (non) sei il tuo lavoro: vinsero i sentimenti e lavori precari di “lui e lei”, coppia protagonista che per Sandro Mabellini, e a tutti gli effetti, è in rosso. Costumi (e capelli), ma anche il tavolo-casa che unico pezzo in scena li unisce e divide, hanno lo stesso colore delle loro paure: il conto in banca e il sangue, di lei, che se manca “è una tragedia”. Perché se non arriva, potrebbe arrivare un figlio, frutto di una svista di lui, imperdonabile, che alla ragazza, anzi giovane “donna-manager in carriera”, costerebbe il licenziamento. Soluzione da scartare, un figlio rappresenta un’alternativa al lavoro: o madre, o donna. E in ogni caso, sesso debole. Questa è la “merda del mondo” che descriveva Tyler Durden, protagonista di Fight club, in uno dei suoi aforismi: “Siamo consumatori. Siamo sottoprodotti di uno stile di vita che ci ossessiona. Possiamo ammazzarci in lavori che odiamo per poterci comprare idiozie che non ci servono affatto… Tu non sei il tuo lavoro”. Celebre asserzione, riadattata in Tu (non) sei il tuo lavoro, per la messa in scena che presenta i due estremi di una stessa realtà: condivisa nei ritmi impossibili, scandita da offerte, promesse e rescissioni di contratti. Dov’è finito l’amore? I due cuori sono divisi nella capanna che, mantenuta ancora dai genitori, rinchiude lui, tutto il giorno impegnato da Google, la nave che lo trasporta ondeggiando da un impiego all’altro. Lei sì, è innamorata, ma del suo mestiere, o forse del suo capo che se la chiama di domenica la fa sentire importante… Triste vivere, rappresentato da una pièce singolare: capace di far ridere la platea, è l’unica che, una volta concluso lo spettacolo, cambia attori e continua fuori dal teatro. Meno divertente.
Martina Melandri