Geppetto e Geppetto
regia e drammaturgia di Tindaro Granata

Geppetto e Geppetto sono due papà. Proprio come il genitore di Pinocchio, non potendo avere un figlio, hanno trovato un modo per averlo lo stesso. Attingendo a una delle poche figure letterarie che indagano il tema di una paternità “atipica”, Tindaro Granata racconta una storia, o meglio un intreccio di storie, che porta in scena alcune delle domande più dibattute degli ultimi mesi. La drammaturgia assorbe testimonianze raccolte dall’autore durante viaggi e incontri, ma anche le parole rimbalzate sui media nei giorni della discussione del decreto Cirinnà: anche quella stepchild adoption mai approvata e continuamente storpiata, nella forma e nel contenuto, dai politici in parlamento.
Intorno a un tavolo che è “a volte agenzia, a volte cucina e a volte scuola”, attraverso la vicenda di Luca e Toni che decidono di avere un figlio, prendono forma le domande sulla difficoltà di essere genitori, soprattutto se dello stesso sesso, e uomini. Perché una donna sceglie di affittare il proprio utero? Lo fa per soldi o per solidarietà? Ed è giusto “comprare un figlio” che non avrà una madre? È contro natura? Contro Dio? E cosa dirà la gente? E se ci si lascia – o peggio se il padre riconosciuto come tale muore – chi avrà la tutela del bambino?

I personaggi, vestiti con neutre magliette nere che spiegano le rispettive identità attraverso nomi in nastro adesivo bianco, diventano esempi di una condizione universale. I fili del racconto si intrecciano, con un chirurgico e calibrato meccanismo di passaggio da quadro a quadro ben sostenuto dai bravi interpreti (su tutti, Li Volsi, Di Genio e lo stesso Granata). Ma il codice definito con precisione nella prima parte – dalla relazione con il pubblico a quella tra i personaggi nelle diverse situazioni – nella seconda si sfilaccia perdendo di rigore e chiarezza. E così il testo, incisivo finché si sofferma sulla relazione tra i tre (padri e figlio) o nelle dinamiche che coinvolgono la nonna, divaga forse su troppi temi. Alle domande centrali si sovrappongono interrogativi legati al confronto tra i diversi modelli di famiglia, alla difficoltà di crescere, ai rapporti di amicizia, le gelosie, la depressione, la malattia, perfino il lavoro e la paura di abbandonare le proprie aspirazioni. Se l’intento è chiaro – allargare lo sguardo per non rendere il messaggio assertivo – il risultato rischia di compromettere l’incisività e la coerenza iniziale. Limando le ridondanze, il nucleo più forte del lavoro potrebbe emergere con più chiarezza: la condizione universale di inadeguatezza ad essere genitori è lo specchio del nostro paese impreparato ad accettare e accogliere la diversità.

Francesca Serrazanetti