Lamin ci saluta all’ingresso delle due stanze della Ciclofficina di Bagno Vignoni: sono le tre e mezza di un torrido pomeriggio di agosto, e le due bottiglie d’acqua che ci offre dischiudono la conversazione. Ci domanda se abbiamo già visto Ultima chiamata; Giulia, che con lui gestisce l’attività, è una delle interpreti. Intorno a noi, le biciclette sono allineate sotto le fotografie in bianco e nero di un ciclismo d’epoca, muscolare e tuttavia gentile, che oggi rivive lungo le strade bianche percorse dai partecipanti all’Eroica, la corsa che si dispiega tra il Chianti senese e la Val d’Orcia. Del Teatro Povero di Monticchiello, lo spazio accoglie qualche locandina e mostra il logo su gadget e t-shirt, a testimoniare quella filiazione di un progetto che dal palcoscenico di piazza della Commenda è dilagato negli anni verso altri ambiti: i ristoranti che animano il borgo, l’edicola, la foresteria, fino all’attività di noleggio biciclette. La cooperativa sorta a partire dall’esperienza del teatro partecipato è un modello sociale, economico – finanche politico – felice, uno dei primi tentativi di questa tipologia realizzati in Toscana, per produrre vantaggi a favore di una piccola comunità grazie a un’inusitata triangolazione tra attività di impresa, istituzioni e cittadinanza attiva. Nonostante la crescente diversificazione, è però del teatro che si fa sempre menzione nelle chiacchiere informali: a esso si ritorna come nucleo germinativo delle narrazioni, degli accadimenti, forse delle stesse biografie.

Quando arriva Giulia, le parole si affastellano veloci: dalle nostre impressioni sulla serata a teatro – la giovane è un’intensa Rosa, in questo Ultima chiamata in scena fino al 14 agosto – si giunge senza soluzione di continuità al racconto delle assemblee cittadine che indagano i temi fondanti la quotidianità di Monticchiello, per toccare infine le fasi della scrittura del testo e delle prove. È un rituale che si ripete, con poche variazioni, da più di cinquant’anni: studiata e recensita, analizzata da critici, registi e letterati, l’esperienza della drammaturgia collettiva del Teatro Povero – che Giorgio Strehler definì, con icastica efficacia, “autodramma” – non nasconde segreti procedurali. Eppure, la vicenda del borgo toscano, e quella caparbia ostinazione con cui dal 1967 continua a offrire un luminoso esempio di cosa può fare il teatro in termini di costruzione e ricostruzione dei legami comunitari, di lavoro sul territorio, di volano per il turismo e l’economia, non cessano di conquistare l’ascoltatore. Accantonate per un istante le riflessioni antropologiche e teatrologiche, ci fermiamo – una volta ancora, e poi un’altra – a godere di una storia che confonde utopia e senso pratico, sogno e allucinazione collettiva con spirito imprenditoriale: ci scopriamo innamorati della favola, di un miraggio fattosi realtà.

Un’immagine tratta dal repertorio del Teatro Povero di Monticchiello

È il tempo del teatro a modificarsi, a Monticchiello, sovrapponendosi a quello civile, dilatandosi oltre gli applausi che chiudono lo spettacolo, inglobando quel “dopo” che si manifesta negli incontri che hanno luogo alla Taverna di Bronzone, oppure proprio qui, tra le bici esposte a poche decine di metri dall’ingresso del Parco dei Mulini. Non le consuete cronologie, né i calendari ufficiali dettano il ritmo della vita nel borgo e nei suoi dintorni: gli annali sembrano portare piuttosto lo stesso titolo dei drammi, e i mesi si succedono l’uno dopo l’altro insieme al calendario delle assemblee, delle prove, degli appuntamenti invernali presso il Teatrino della Compagnia. Gli autodrammi testimoniano, come pietre miliari, lo scorrere delle epoche, sancendone gli eventi, i fatti, le piccole conquiste e le grandi tragedie, quelle tappe sulle quali siamo portati a chiederci: dove eravamo, in quegli istanti? Cosa facevamo, chi eravamo mentre mettevamo in scena quel testo, mentre il mondo cambiava, mentre quegli uomini morivano e quella città veniva rasa al suolo?

Ultima chiamata, foto di Emiliano Migliorucci

Più ancora che nella vicenda ispirata al conflitto tra Russia e Ucraina, è nell’indagine di quanto Annie Ernaux definisce il «tempo che ci ha attraversato», il «mondo che abbiamo registrato in noi semplicemente vivendo», che sembra celarsi il nucleo di Ultima chiamata. Come nel suo romanzo Gli anni, anche l’umanità delineata nell’autodramma di questo 2022 è colta attraverso la lente della Storia, filtrata da quelle immagini che ne hanno manifestato lo spirito, incarnandone i timori e i desideri, spesso definendo le torsioni delle singole esistenze. È così con un episodio celebre, quello dei carrarmati russi nella Budapest del 1956, che si apre il testo: l’evento che più di altri ha segnato la storia del comunismo italiano, e che ha costituito lo specchio, incrinato e macchiato di sangue, nel quale l’élite intellettuale del paese ha dovuto riflettersi. Viene in mente il concitato racconto che di quei giorni stilò Carlo Fruttero in Mutandine di chiffon: i corridoi degli uffici Einaudi dove corrono trafelati segretarie e traduttori, le porte che sbattono, i volti tirati, la disperata ricerca di notizie e di comunicati da Roma, e soprattutto i telefoni che squillano, continuamente. Non ci sono scrittori né reporter, nella Monticchiello delineata dall’autodramma, e l’unico telefono del borgo è all’interno della sezione locale del PCI, ma analogo è lo smarrimento di fronte a un evento che squassa le coscienze, imponendo a ciascuno di fare i conti con un’amara distanza tra adesioni ideologiche e intimi valori. È attorno a quel telefono che si dipana il riconoscibile intreccio delle tensioni tra mezzadri comunisti e tesserati della DC, una piccola farsa degna della miglior commedia all’italiana, capace di cogliere con ironia vizi e virtù dell’epoca (o piuttosto di ogni epoca): affetto ora da un clientelismo misero – «Ricorda a chi devi questo lavoro!», tuona il responsabile democristiano al giovane impiegato alle Poste – ora da un’acritica e fanatica fiducia nel Partito – «La mamma è la mamma, è vero, ma l’Unione Sovietica è n’altra cosa!» – il piccolo mondo antico del borgo si scopre litigioso, rissoso, disorientato. Solo le donne di Monticchiello sembrano potere, e volere, imporre una modificazione al corso degli eventi: premono per ottenere quel ruolo nella società a loro ancora negato, instillano dubbi, soprattutto alzano la voce contro la guerra, contro ogni guerra. Insieme, un filo alla volta, uno scampolo dopo l’altro, tessono una grande bandiera della pace, sulla quale il ricamo «Le donne di Monticchiello vogliono la terra e no la guerra» – con quell’avverbio olofrastico imperfetto e familiare – avrebbe attirato gli sguardi e le speranze di chiunque, nella manifestazione contro i fatti d’Ungheria che da lì a poco si sarebbe tenuta per le strade di Siena. È questa la sequenza più potente del dramma: raccolte in uno spazio candido, abitato soltanto da poche sedute, le tante attrici di Monticchiello cuciono frammenti di stoffa, simbolo di quanto il paese stesso compie da più di cinquant’anni, con stralci di vite e lacerti di storie.

Ultima chiamata, foto di Emiliano Migliorucci

Ciò che appare evidente in Ultima chiamata è d’altra parte un complesso passaggio di testimone: nella passione di Rosa, così ribelle e anticonformista, o nelle voci delle bambine, desiderose di una vita diversa da quella che il genere le avrebbe costrette ad accettare, emergono in filigrana universali e riconoscibili conflitti intergenerazionali, così come la sfida che lo stesso Teatro Povero sta affrontando. Dopo la scomparsa di Andrea Cresti, il ruolo maieutico e registico è passato nelle mani di Giampiero Giglioni e Manfredi Rutelli, e una nuova fase storica del Teatro Povero sembra delinearsi all’orizzonte: uno scenario inedito, in cui ai giovani – oggi, come nel 1956 immaginato dal dramma – spetta il compito di sostenere un’eredità prestigiosa e ingombrante, e di edificare una nuova storia per Monticchiello. Ecco che l’autodramma di quest’anno mette in luce, con ammirevole onestà, ora le difficoltà di comprensione tra due mondi – «Noi magari saremo troppo vecchie, certe cose ‘un si capiscono bene… Però ricordati: siamo state giovani anche noialtre…», protesta Esterina, una delle anziane del paese, rivolgendosi alla pasionaria Rosa – ora i rischi di un apodittico entusiasmo per il futuro e il progresso.

Scorre il tempo sulla scena, trascorre la storia sotto gli occhi degli spettatori e di un intero borgo: giovani studenti che fronteggiano solitari i carrarmati in una piazza di Pechino, grattacieli di New York in fiamme, camion militari gonfi di bare in una notte di Bergamo. È Rosa a contemplare i fotogrammi di un cinquantennio di vita del mondo, proiettati sul muro di un palazzo di piazza della Commenda; con lei, noi stessi ci riconosciamo in quel tempo, e ci interroghiamo su quale memoria, intima o collettiva, sopravvivrà a essi. Sul palco è adesso un prossimo 2026: l’austerity sembra costituire l’eufemismo per una diffusa povertà, e un surreale “direttore” annuncia in streaming, con toni da imbonitore, un gioioso ritorno al passato, a una fantomatica età dell’oro. Che sia un bambino a interpretare in video la massima figura istituzionale, propugnando una decrescita à la Latouche che tuttavia sconfina in una distopia orwelliana, è un’intuizione brillante, che non consola la platea e squarcia qualsiasi ipocrisia giovanilistica. Mentre la Monticchiello del vicino futuro fa i conti con il populismo e la demagogia, con un violento giustizialismo, con il becero complottismo, solo la memoria sembra potere arginare la violenza e la paura: ad animarla, a dispiegarla come quella bandiera che non riuscì a garrire nel 1956, è Giada, nipote della Rosa di un tempo. Chiusa in una valigia, la storia di Monticchiello – la nostra storia – appare polverosa, sbiadita e scucita; forse, nelle mani di una giovane, potrà nuovamente mostrare i suoi colori, ed entusiasmarci.

Alessandro Iachino


in copertina: Ultima chiamata, foto di Emiliano Migliorucci

ULTIMA CHIAMATA
autodramma della gente di Monticchiello
in scena a Monticchiello, in piazza della Commenda, dal 30 luglio al 14 agosto 2022