dal romanzo di Emilio Lussu
adattamento di Daniele Monachella
visto al teatro Franco Parenti di Milano_15-17 maggio 2015

Chi ama il teatro si accosta sempre con sospetto, credo, alle letture sceniche di testi in prosa; la parola ‘dramma’, si sa, deriva dal verbo greco che significa ‘agire’ e senza azione non c’è teatro. Lo spettacolo andato in scena al Franco Parenti fuga ogni dubbio sulla forza teatrale della sola parola, specie se accompagnata – com’è stato all’origine di ogni performance drammatica – dalla musica. Si tratta del recital musico-teatrale tratto dal romanzo memorialistico di Emilio Lussu, Un anno sull’altipiano, diario a posteriori della guerra condotta dalla Brigata Sassari sull’Altopiano di Asiago tra le due estati del 1916 e del 1917. Un libro la cui lettura costituisce una tappa obbligata nella formazione di un cittadino europeo e del mondo. Il libro per antonomasia sulla guerra, fortemente voluto da Gaetano Salvemini, e perciò contro la guerra, contro tutte le guerre. Come altri libri fondanti per la cultura europea del ‘900, scritto in sanatorio: rievocazione del dolore nel dolore, pubblicato vent’anni dopo la prima guerra mondiale e alle soglie di un’altra guerra, quando il suo autore, scappato al carcere fascista, versava in esilio a Parigi. La voce di Daniele Monachella rende la chiarezza, la lucidità, la forza insita nella prosa militante di Lussu, scandisce le parole come fossero di un manifesto, non di un romanzo (e questa era l’intenzione dell’autore), dona incisività al racconto senza indulgere al patetico o al declamatorio: il ricordo resta nudo, nella lingua scevra da regionalismi di Lussu, lingua pura, semmai talora vestita di volontaria comicità quando imita la follia degli ufficiali; prosa interrotta da incisi che battono l’andamento ritmico; prosa di frasi semplici, accostate in paratassi, martellanti; prosa nient’affatto orale nella genesi, ma studiata, eppure mai artificiosa; prosa che la lettura ad alta voce deve saper rendere nella sua durezza come nella sua evocatività: Monachella ci riesce splendidamente, tanto che il ricordo diventa vivo, presente, dramma appunto.

Ed ecco il tenente Mastini, collega d’Università di Lussu incontrato di nuovo in guerra, che ricorda come un sogno splendido i comuni anni da studente a Cagliari, intanto beve cognac e a quell’ubriachezza costante, in cui versa tutto il battaglione, trova un nobile modello letterario, il vino con cui si dissetano gli eroi omerici; immagina dunque un Ettore che meglio avrebbe affrontato nel duello estremo Achille se avesse bevuto cognac: così la trincea si allontana, d’improvviso siamo sotto le mura di Troia, e – racconta Lussu – “anch’io rividi, per un attimo, Ettore, fermarsi, dopo quella fuga affrettata e non del tutto giustificata, sotto lo sguardo dei suoi concittadini, spettatori sulle mura, slacciarsi, dal cinturone di cuoio ricamato d’oro, dono di Andromaca, un’elegante borraccia di cognac, e bere, in faccia ad Achille”. Le virgole spezzano la prosa, che singhiozza, non respira, le parole sono pezzi di vetro acuminato: Monachella rende quest’affanno e lo trasforma in visione, ché anche gli spettatori/ascoltatori ‘vedono’ i due colti ufficiali dialogare tra loro in una rara pausa della vita di trincea, e insieme ‘vedono’ Ettore che va a morire; il richiamo omerico si degrada nell’ignobiltà della guerra sull’altipiano, nella quale l’alcol a fiumi costituisce un’ancora di salvezza ed insieme un espediente per potersi incoscientemente lanciare incontro alla morte. E mentre il tenente con l’amico degli anni universitari sorride di quella contaminazione grottesca tra un Ettore reso più ardimentoso dal cognac e realtà cruda, reclina all’improvviso il volto e s’accascia sul sasso su cui è seduto, colpito in fronte da un cecchino.

Ecco: il testo, che non è testo teatrale, diviene, grazie alla capacità della voce recitante che ne riproduce la sintassi battente, testo profondamente teatrale, costellato di interiezioni, grida, angosciose domande, persino canto (“quel mazzolin di fiori, che vien dalla montagna…”). Ma diventa testo teatrale anche grazie all’accompagnamento della musica scritta da Andrea Congia per chitarra, launeddas e percussioni, martellante e semplice come la prosa di Lussu e come questa evocativa, musica dalle risonanze ancestrali grazie all’uso degli strumenti a fiato tradizionali sardi suonati con indicibile maestria e a tratti furore da Andrea Pisu. Attraverso le parole e i suoni lo spettatore non rivive il libro sulla guerra scritto con l’orgoglio dell’origine sarda e della comunione tra i ‘dimonios’ della Brigata Sassari che nella guerra di trincea, a contatto continuo con la morte, scoprirono la nobiltà e l’onore della loro comune identità e cultura, riconobbero l’unità indissolubile delle loro tradizioni, resero il loro isolamento una forza invincibile, magica. E mentre Daniele Monachella legge, il suono delle launeddas, quasi un lamento, lascia scorrere nella mente dello spettatore le immagini di una Sardegna assai diversa dalle spiagge colonizzate: la Sardegna degli olivastri piegati dal vento, delle alture bianche e crudeli del Supramonte, delle miniere buie dell’Iglesiente, dei pascoli solitari e per niente oleografici; la Sardegna amara della luna piena, macchia oleosa sulla valle dei Nuraghi; la Sardegna del commovente Museo della Brigata Sassari in Piazza Castello a Sassari, non segnalato in alcuna guida turistica; la Sardegna delle incrollabili, potenti, mute case di pietra: come quelle di Amurgia, borgo natale di Lussu di appena 500 anime, in una delle quali c’è il museo per Emilio e Joyce Lussu. Tutto questo, nell’ora intensa del recital, lo spettatore lo sente, con la mente, col cuore, con un brivido incontrollabile alle parole di un canto di guerra, “Forza Paris”, “Forza insieme!’”, che diventa paradossalmente urlo altissimo, dalla infinita eco, contro la guerra. Poi le luci del palco si spengono. Ovazione.

Sotera Fornaro