Cuoro, il format creato dieci anni fa dall’attrice e autrice Gioia Salvatori, è uno sfogo che prende di mira tutto lo stress quotidiano, tutte le storture del presente. E la sua versione natalizia, con la quale Il Lavoratorio ha chiuso la stagione invernale, si cimenta col periodo più storto di tutti, attraversandone le ipocrisie e le incongruenze, le tradizioni e i personaggi classici: così classici che quando, a metà spettacolo, ci arriva tra le mani una scheda della tombola, sappiamo già che qualcuno dal pubblico urlerà «Ambo!» al primo numero. Cuoro Natalino, però, non è stand-up comedy: Salvatori non sta in piedi, ma, dopo averci cantato un medley natalizio tra inni gregoriani, Mariah Carey e pubblicità anni ’80, si accascia sfatta sulla poltrona. Non è nemmeno comicità all’italiana, però: quella che si abbandona alle tendenze di una risata facile, quella che odia la suocera e il capoufficio. Cuoro al contrario si guarda dentro e, se proprio c’è qualcosa da odiare, allora odia il patriarcato. Occhi sgranati da personaggio dei cartoni animati, dissimula una cultura che, fra una macabra favola di Natale e una fetta di pandoro, filtra e si contrappone al becero vivere quotidiano.

Salvatori parla una neolingua che mescola dialettismi romani e citazioni dalla letteratura classica, nessi semantici assurdi, sostantivi avverbializzati e voli pindarici, fino a planare su “scivoloni” rivendicati e molto ben ponderati: lo stesso Cuoro è un cuore così declinato per alludere alla lunga e non ancora conclusa ricerca dell’autrice sull’errore. Salvatori si sofferma spesso, infatti, sul nesso fra “errore” ed “errare”, sullo sbaglio inevitabile in cui si incorre se si sta cercando qualcosa. Anche Cuoro Natalino ci appare come una ricerca continua, tra una poesia recitata in piedi sulla sedia e un nuovo presepe fatto di padre, madre e fratelli&sorelle; nel mezzo, c’è spazio anche per una digressione sul menù di Santo Stefano e Cuoro, allora, diventa anche la ricerca di un po’ di pace da tutto questo, ma anche di accettazione per ciò che si è.

La comicità di Salvatori è ben attenta alle donne, al centro delle attese delle feste ben più della controparte maschile: da loro ci si aspetta che preparino la tavola, che facciano bei regali ponderati e gradevolmente impacchettati, che siano allegre, sorridenti e che magari portino il fidanzatino a casa (meglio ancora se è lo stesso dell’anno scorso). È infatti il pubblico femminile, non appena si palesa la possibilità di interazione, a partecipare di più durante lo spettacolo. Non che Cuoro Natalino parli solo a loro (ma forse, anche, un po’ sì: «Chissenefrega della prospettiva maschile», ci ripete Salvatori con soddisfazione): Cuoro parla sì del corpo e della condizione femminile, o delle orfanelle delle fiabe, ma così facendo non rinuncia a mostrare molto di più. Per esempio come, a ben guardare, oltre al pandoro e alle luminarie, alle auto-imposizioni reazionarie, ai festeggiamenti di capodanno e al pranzo natalizio, l’arte sia una consolazione quando ci affacciamo su tutto quel nulla.

Marco Bartolini


in copertina: foto ufficio stampa

CUORO NATALINO
di e con Gioia Salvatori

Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico Officina Critica #2