Andrea De Rosa e Carmelo Rifici mettono in scena un’opera complessa, in cui la linea di separazione tra passato e presente si assottiglia fino a diventare permeabile. La concezione di tempo lineare si perde, così come la distinzione tra conflitti interiori e lotte sociali. L’angoscia del singolo individuo acquista una caratteristica universale e condivisibile, dimostrando che per quanti passi avanti si possano fare nei secoli, i motivi di preoccupazione rimangono invariati e vengono tramandati alle generazioni successive.
Processo Galileo ripercorre le tappe del processo allo scienziato pisano e allo stesso tempo la fatica di Angela, una studentessa dei giorni nostri che tenta di ricontestualizzarlo nel presente, esplorandone analogie e conseguenze. I due personaggi si scontrano con lo scetticismo dei propri familiari, che cercano di dissuaderli dal persistere nella loro investigazione. Nel 1633 Virginia chiede al padre di pensare alla sua famiglia: gli scrive molte lettere pregandolo di abiurare e salvarsi, poiché la sua morte non porterebbe nessun beneficio alla sua ricerca scientifica, mentre sarebbe devastante per i suoi cari. Nel presente Angela si vede criticata dalla madre, che le rimprovera di non prestare abbastanza attenzione alla concretezza della vita quotidiana, quella in cui vive suo figlio e pure il suo piccolo orto, ma di perdersi in pensieri filosofici che le causano solo dubbi esistenziali e non le forniscono nessuna risposta definitiva.
Durante il prologo e nella prima parte, tutta questa frustrazione viene personificata e accumulata da un personaggio sconosciuto, quasi onirico, che con la sua ampia camicia bianca si aggira per la scena. Ma il suo ruolo diventa evidente solamente nella seconda parte dello spettacolo: il rivoluzionario rappresenta e presta la sua voce a tutti coloro che sono stati abbastanza coraggiosi da scontrarsi con le dottrine imposte dal vertici al potere, che sono stati accusati di eresia nei vari periodi storici, che hanno provato a resistere all’oppressione e per questo sono stati uccisi. Ogni repressione è un colpo alla civiltà, e tutti questi colpi vengono scanditi dalle ripetute cadute del rivoluzionario, sempre più rovinose e violente.
Senza cedere a concilianti soluzioni, lo spettacolo dà voce a entrambe le prospettive messe in campo: quella che si spinge più alla scoperta del mondo, e quella che cerca nel mondo una stabilità a cui appoggiarsi. Racconta di Galileo e delle sue teorie, che lo hanno portato a scontrarsi con la Santa Chiesa e l’Inquisizione, ma anche la contadina che nel 1604 ha assistito alla scoperta di una stella nova e che si è sentita perduta al veder stravolgere tutto quello in cui credeva. Presenta il progresso scientifico come una migliore comprensione del mondo, ma allo stesso modo critica fortemente il ruolo complice che tecnologia e fisica hanno avuto in eventi di distruzione, come quelli causati dalle armi nucleari.
De Rosa e Rifici confermano con questo spettacolo l’assenza di verità assolute. La proposta scenica si presta perfettamente a supportare questa tesi, con spazi che si mescolano tra di loro fino a diventare un insieme armonioso e dissonante allo stesso tempo. Senza quinte, il palco risulta privo di particolari effetti a sorpresa, straordinariamente aperto allo spettatore che può godere di tutti gli elementi presenti fin dall’inizio, come ad esempio le varie vasche di terra che compongono l’orto e la lavagna di Galileo e del suo pupillo sullo sfondo. Il pubblico ha quindi dei punti di riferimento fisici all’interno dello scenario, che lo aiutano ad orientarsi temporalmente e tematicamente. La lavagna, emblema della ricerca scientifica, si trova affiancata dall’orto, simbolo del mondo terreno e delle cose fisiche: i calcoli matematici e la nudità della terra, così naturalmente vicini, ci dicono che nella nostra inesausta ricerca di significato necessitiamo entrambi.
Alida Savio
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