Un prologo

I riti funzionano «come un lucido di contrasto dinanzi al quale il nostro presente assume contorni più netti. […] Rappresentano quei valori e quegli ordinamenti che sorreggono una comunità. Creano una comunità senza comunicazione, mentre oggi domina una comunicazione senza comunità». Con queste parole Byung-Chul Han descrive l’importanza della dimensione rituale nel saggio La scomparsa dei riti, pubblicato in Italia nel 2021 dalla casa editrice nottetempo. Il filosofo coreano analizza come la società contemporanea sia ormai diventata costitutivamente respingente nei confronti delle forme rituali necessarie per la creazione di una comunità, orientandosi invece verso lo sviluppo di un “narcisismo collettivo” che annulla e appiattisce ogni forma possibile di dialogo e d’incontro, portando il singolo individuo all’isolamento dalla società e a una chiusura in sé stesso.

Risulta perciò ancor più significativa la creazione di Eleusi, progetto corale legato ai temi del sacro e della violenz,  della durata di 24 ore, ideato e diretto da Davide Enia al Piccolo Teatro di Milano, negli spazi del Teatro Grassi e del Teatro Studio Melato. Un lavoro eclettico anche rispetto alla sua collocazione nel percorso artistico finora tracciato dall’artista palermitano maggiormente legato alle forme del teatro di narrazione nonostante i punti di contatti tra questo lavoro e i precedenti siano molteplici, come ad esempio la volontà, spesso presente nelle sue messinscene, di dare voce ai morti, agli scomparsi. Eleusi, come spiega Enia, costituisce un vero e proprio rituale teatrale: «Dura ventiquattr’ore di fila, dal tramonto al tramonto, poi scompare», portando con sé il segreto e l’intimità di ciò che si è condiviso insieme, esattamente come accadeva durante i misteri eleusini nell’Antica Grecia. Due luoghi sono animati simultaneamente, le porte del teatro rimangono aperte nel corso di questa intera giornata, accolgono costantemente il pubblico, libero di entrare e uscire in qualsiasi momento: al Grassi tre gruppi di attori si alternano realizzando partiture fisiche prive di parola da venti minuti l’una, ispirate alla violenza e alla sua relazione con i corpi violenti e violati; in contemporanea al Melato ogni ora un coro diverso sostituisce quello che l’ha preceduto nell’esecuzione di un repertorio di canti sacri, per tutta la durata delle ventiquattro ore. Il rito non potrebbe però realizzarsi senza la partecipazione di una collettività pronta a farne parte: sta infatti a ogni singolo spettatore il compito di tenere viva la fiamma generata da questo progetto, darle un senso con la sua presenza nei diversi momenti del suo farsi. Chiamati a prendere parte alla ricostruzione di una comunità, abbiamo risposto dando forma a un racconto corale,nella sua estensione temporale e nel suo sdoppiamento geografico.

Alice Strazzi


foto: Masiar Pasquali

sabato 10 giugno, ore 21.30, Teatro Studio Melato

Sabato sera, poco dopo l’inizio ufficiale di Eleusi, il Teatro Studio Melato appare quasi trasfigurato. A essere cambiata non è la struttura, ma l’atmosfera che la contraddistingue. Sul farsi della notte milanese, il Piccolo di via Rivoli veglia come luogo sacro e la sua struttura cilindrica, verticale, ci accoglie come fosse una cattedrale. Una cattedrale senza gente, però, non è niente, parafrasando Raymond Carver. Ed è proprio osservando come si avvicinano le persone all’evento, che si può percepire questo mutamento quasi in senso mistico dello spazio teatrale. 

Al chiacchiericcio disinvolto che accompagna solitamente l’ingresso in sala, ai bip degli scanner che validano i biglietti, alle corse dei ritardatari, si sono sostituiti rivoli di avventori da soli, a coppie o in gruppo che accedono alla sala sommessamente. Confusi dal non avere un posto assegnato, sono costretti a guardarsi intorno, a scegliere se rimanere in piedi e in disparte o se attraversare quello che solitamente è lo spazio scenico per prendere posto in platea; o ancora, se avventurarsi per i corridoi bui che portano alle balconate. Il primo contatto con ciò che avviene è quindi autonomo e favorisce il rapporto diretto, uno a uno, con lo spazio. Unica guida verso l’interno è il disegno luci di Manuel Frenda, che si schiude una volta attraversata la grande porta che dà in platea. I quattro settori di sedute che la compongono sono irradiati dall’alto e riservati agli spettatori o ai cori in esibizione, con uno schema a incrocio, a chiasmo. L’emiciclo centrale è invece sgombro e in ombra, di uno scuro che diventa nero abisso man mano che guardiamo verso le quinte e la parete di fondo della sala. Un vuoto, che che lo sguardo è portato naturalmente a colmare, alzandosi in esplorazione per seguire le luci radenti alle pareti. Così, nella notte di Eleusi, l’occhio riscopre i volumi e i materiali, i mattoni a vista dei quattro ordini di balconata e perfino l’imponente soffitto ligneo, termine di un’ascesa che è fatta anche di sentieri cromatici negli spettri del giallo, del rosso e dell’arancio. 

Tali contrasti, proprio come in un luogo di culto, sono organizzati per contribuire all’introspezione. Tutte le sorgenti sono di luce rigorosamente calda, come si usa spesso nelle chiese per creare l’illusione delle vecchie candele o di lampade a olio, nell’immaginario associate all’intimità. Infine, a suggellare questa riconfigurazione del teatro come cattedrale, è proprio il corpo sonoro, che come quello luminoso riplasma la posizione emotiva dello spettatore nell’ambiente. La scelta di porre i cori in platea infatti, a latere e non al centro della sala, ci comunica che non sono essi stessi il fine del nostro ingresso a teatro. Come nei riti religiosi, sono uno degli elementi che produce una nuova esperienza dello spazio e prepara il sentimento del sacro. In questo cambio di prospettiva, sarà quindi la sensibilità di ognuno a dire se un dio scende ad abitare veramente questo tempio. Se, come il protagonista del racconto di Carver, seguendo le linee della cattedrale scopriremo che si annulla l’idea stessa di muro, confine e finitezza, e ci sentiremo «come la sensazione di non stare dentro a niente»; o se, in definitiva, divina è solo l’illusione, perché quelli che vedono, non vedono quello che vedono, e quelli che volano sono essi stessi il volo (sic.). 

Federico Demitry


foto: Masiar Pasquali

sabato 10 giugno, ore 23:20, Teatro Studio Melato

 In un via vai di assidui frequentatori del teatro e curiosi passanti attratti dai fievoli suoni provenienti dallo studio Melato, si viene accolti in un luogo quasi sacro, dalla forte componente liturgico-rituale: la suddivisione dello spazio segue uno schema ben preciso, che ricorda quello di una chiesa cristiana. Ogni azione è scandita da tempi cerimoniali precisi, dal movimento dei cantanti alla durata delle singole canzoni. 

L’area è illuminata da cunei di luce dorata che si alternano a isolate zone d’ombra. Nel silenzio generale, gli spettatori occupano l’intera sala, chi seduto in platea, chi in balconata, e chi ancora disteso sul pavimento ricoperto da un tappeto dai toni bluastri. Le porte del Melato si spalancano e alcune donne, indossando lunghi abiti rossi, incedono a passi lenti in teatro e occupano gli spalti adiacenti all’entrata. A seguire, uomini in eleganti abiti neri si posizionano nelle file più alte della platea, parzialmente confusi tra i toni scuri che dominano la sala. Il coro Complesso Vocale Syntagma inizia il suo canto. Colpiscono la compostezza dei corpi, la solennità dei movimenti e la potenza delle voci che, dopo un inizio sommesso e delicato, aumentano gradualmente d’intensità. All’improvviso, mentre le note si ergono alte al suono di Fiat voluntas tua, riecheggia per lo studio una voce femminile che entra in spiccato contrasto con l’eufonia del canto corale: una registrazione fuori campo, ripetuta circa ogni 20 minuti, racconta storie a tratti troppo difficili da ascoltare, ma con un tono pacato e solenne che ne aumenta la forza drammatica. Sono episodi di violenza, testimonianze di uomini e donne che hanno visto e vissuto il male nelle sue forme più feroci. Tra queste, una si staglia più nitida sulle altre, travolgendo il pubblico per la franchezza dei dettagli esposti: quella di un abuso sessuale commesso tra le macerie di un paese in guerra. La forza evocativa del racconto è resa ancora più dolorosa dalla sontuosità del canto sottostante, che talvolta copre le parole della storia, lasciando all’immaginazione degli spettatori il compito di riempire i vuoti narrativi. Eppure, la preghiera del coro non si spegne, ma continua imperturbata a risuonare, come una quieta rivolta agli orrori esposti, un urlo di speranza che cerca in ogni modo di soffocare il dolore di una realtà difficile da accettare. E proprio le donne, in abiti vermigli come il sangue versato nelle storie, si fanno testimoni con il loro corpo e con la loro voce di una violenza non ancora debellata, frutto di una furia barbara che aleggia nascosta nella società odierna. Eppure, sebbene l’ingiustizia e l’oltraggio non potranno mai essere sradicate dalla memoria, come testimonia la voce fuori campo che sistematicamente riprende la sua narrazione, la dignità delle donne violate è rianimata dal canto della loro comunità, dal coro di voci che non si spegne mai per l’intera durata del racconto e che si trasforma in rito assolutivo e catartico per chi ne è testimone. 

Claudio Favazza


foto: Masiar Pasquali

domenica 11 giugno, ore 00:30, Teatro Studio Melato

È mezzanotte e mezza, la metro sta per chiudere e la città di Milano, in un sabato notte quasi estivo, si sta per addormentare. Ma passando al numero 6 di Via Rivoli si notano le luci del teatro accese e uno sciamare di persone che entrano ed escono. Il Teatro Studio Melato è ancora aperto e lo sarà per tutta la notte, invitando i passanti a varcare la soglia. All’interno della sala, posizionato sulla sinistra tra gli spalti della platea, un coro, di una quindicina di ragazzi e ragazze vestiti con abiti eleganti, intona canti gregoriani. Il pubblico è disteso a terra, al centro dell’edificio e quindi del lungo palcoscenico a pianta circolare che caratterizza lo spazio del Melato; c’è chi guarda il soffitto e le file delle gallerie, che ricordano così tanto una casa di ringhiera, chi invece chiude gli occhi e ascolta in silenzio, chi seduto per terra o in platea osserva come lo spostarsi delle persone tra interno ed esterno sembri un atto performativo. Il palcoscenico diventa protagonista silente di un atto di riappropriazione di uno spazio solitamente non destinato al pubblico, ma che in questo caso lo abita e lo vive, stravolgendo i ruoli, come se il teatro fosse un museo o un tempio dove sostare, proprio lì nel mezzo, nel cuore della notte, dando un nuovo significato a chi guarda e a chi è guardato. 

Le voci e i brani cantati cullano i pensieri finché alle melodie non si sovrappongono racconti di storie di violenza, recitati da Silvia Giambrone e trasmessi da un altoparlante. Questi testi agghiaccianti narrano varie declinazioni di crudeltà, dagli stupri che avvengono in situazioni di estrema disumanità come in un paese in guerra, alle violenze verbali rivolte a ciò che, di volta in volta, viene percepito come diverso. Il contrasto tra le storie e le dolci note dei cori a cappella crea un cortocircuito di significato che rende quelle parole parte di una preghiera, come se si creasse un controcanto sonoro e di senso che trasforma la narrazione in un inno sacro. Il coro cambia, si applaude quello che ha appena concluso l’ultimo brano e si attende il prossimo che, sulle note di Signore delle cime un canto d’ispirazione popolare composto nel 1958 dal compositore vicentino Giuseppe de Marzi accoglie nuovi spettatori e ne saluta altri. Questa è la ciclicità dell’evento: un coro dopo l’altro, racconti che si susseguono, il pubblico che cambia, che decide dove sedersi e dove distendersi, quanto stare e come, osservando quel soffitto con le travi di legno, nel cuore della notte, mentre la melodia intona: «lascialo andare per le tue montagne».

Francesca Rigato


foto: Masiar Pasquali

domenica 11 giugno, ore 02:00, Teatro Studio Melato

Un luogo conserva la memoria di ciò che è stato, ne nasconde le tracce, ma senza rimuoverle. Così la sede storica del Piccolo Teatro in Via Rovello non può cancellare il suo passato: tra il 1943 e il 1945 ospitò le torture inflitte a civili e partigiani a opera dei fascisti della Brigata Legione autonoma Ettore Muti. Nel cuore della notte, le mostruosità che hanno avuto luogo in quello che oggi è il Teatro Grassi sembrano ritornare in vita attraverso la rappresentazione di corpi sofferenti e dei gesti di violenza incarnati dai sette attori e performer, in scena per la loro ultima azione notturna, prima di darsi il cambio con il gruppo successivo. In scena, attori e attrici realizzano una sequenza di immagini dolorose e terrificanti, capace di catturare lo sguardo degli spettatori, ammutoliti non tanto per il rispetto di una convenzione teatrale quanto piuttosto per la crudeltà di ciò che stanno osservando. Sul palco, i lamenti angoscianti di una donna tremante costretta a denudarsi rompono il silenzio della sala: un soldato fascista (riconoscibile per aver ripetuto quasi ossessivamente il saluto romano) controlla il corpo di lei a distanza attraverso i gesti della sua mano, direzionando e dando indicazioni sul dove muoversi e sul cosa fare, una forma di tortura in cui, per la ragazza, non può rimanere alcuna libertà di movimento, e quindi di scelta. Alcune scene richiamano da vicino immagini note che hanno fortemente colpito e segnato l’opinione pubblica: non può sfuggire allo spettatore il rifacimento, quasi come fosse un tableau vivant, della fotografia raffigurante la soldatessa americana che tiene al guinzaglio un prigioniero iracheno nel carcere di Abu Ghraib. Gli orrori non solo della storia italiana, ma mondiale, prendono corpo e vita al Teatro Grassi, davanti agli occhi di tutti: il pubblico così si trasforma in testimone delle atrocità accadute e, allo stesso tempo, diventa partecipe di un rito collettivo di condivisione e riconciliazione con il male.

Alice Strazzi


foto: Masiar Pasquali

domenica 11 giugno, ore 08:30, Teatro Studio Melato

Agli spettatori del Melato piace anticipare le azioni di Eleusi: sedersi tra le sezioni della platea vuote, prima che le maschere possano dare indicazioni su dove mettersi; mescolarsi e confondersi tra i membri del coro, alzandosi prima ancora che abbia finito di cantare; applaudire le persone in scena senza che il ciclo di racconti registrati – di violenze, di soprusi – sia finito, rendendolo inudibile. Questa semplice sovversione del rispetto dei tempi sta forse alla base di qualsiasi rituale attuato nel contemporaneo: l’incapacità di lasciarsi pienamente coinvolgere dalla ripetizione di gesti e voci, il guardare a qualcosa come un’esperienza individuale, prima che collettiva. Del resto, alcuni tra i presenti sembrano stare in sala solo per registrare brevi video, anche a costo di farsi rimproverare (più volte!) dal personale. Maleducazione o atto di fedele servizio nei confronti di un amico? A prescindere, chi cerca di concentrarsi sullo spettacolo deve scendere a compromessi con il tipo di trasporto che si aspetterebbe di provare normalmente.

Da fuori, il frastuono della città invade e permea il sacro di Eleusi: ai canti liturgici e alla voce di Giambrone si aggiunge la lingua di una tour leader, udibile a intermittenza quando le porte della sala si aprono. È un momento sorrentiniano: per quanto l’operazione doni al teatro una sua forma di ieraticità, esso assume anche i connotati del Gianicolo ne La grande bellezza risultando per i turisti in visita un’attrazione incomprensibile.
«Un tempo bellissimo, tutto sudato» per dirla con Ivano Fossati: un’istantanea che cattura l’ansietà dei cantanti, la fatica nel mantenere l’ordine delle maschere e, incessante, l’autenticità del brusio dal pubblico. 

Leonardo Ravioli


foto: Masiar Pasquali

domenica 11 giugno, ore 09:00, Teatro Grassi

«Le pinze: per strappare le unghie del quinto dito dei piedi, o i denti, o le palpebre». Soltanto ottant’anni fa i personaggi in scena erano i partigiani che si rifiutavano di confessare mentre i fascisti serravano le pinze. Tutto si consumava lì appena dietro al fondale, negli spazi ora riqualificati come camerini per attori, proprio dietro al muro bianco su cui a un certo punto qualcuno è costretto ad arrampicarsi, per salire una scala disegnata col gessetto. Questa è la testimonianza di una tortura inflitta dalla Gestapo per umiliare i detenuti tra le mura dell’Hotel Regina, ad appena un chilometro da Via Rovello, in pieno centro storico a Milano. Eleusi è una rievocazione continua di questi supplizi attraverso corpi che sembrano – anche se in una performance che lascia davvero poco spazio alle metafore – fantasmi, che in una finestra di tempo limitata sono a disposizione di un’intera comunità, per risvegliarne la coscienza. La grande fisicità degli attori riesce, grazie al raffinato disegno luci di Manuel Frenda che opera quanto c’è di necessario, a restituire la scelleratezza del carnefice e la cupa resilienza della vittima sacrificale.

Dopo sette ore sul palcoscenico, gli attori passano il testimone ad un altro cast, in scena fino al tramonto. All’uscita le maschere mi confessano che non c’è mai stata, da tarda notte a mattino inoltrato, un solo turno senza pubblico – verso le quattro di notte, dicono, una coppia è entrata da sola e ha portato avanti il rito. Fuori dal teatro, dopo pochi passi, mi accorgo che le parole appena scambiate sono state le prime di tutta la giornata. 

Alberto Pirazzini


foto: Masiar Pasquali

domenica 11 giugno, ore 09:40, Teatro Grassi

Domenica mattina, ore nove e quaranta. Mentre la città fatica a svegliarsi e il sole è – contro tutte le previsioni – già alto nel cielo, una manciata di spettatori svolta sulla traversa di via Rovello. Ancora rigati in volto dalle rughe del sonno, questi visitatori mattutini trovano il portone del numero 2 serrato e ne sono inizialmente disorientati: il chiostro è ancora inaccessibile. Eppure il teatro è aperto – lo è rimasto tutta la notte – e per entrare basta attraversare una porticina laterale che conduce al salone del piano terra. Lì, per accogliere questi flâneurs, è stato predisposto un piccolo ricevimento: le maschere,  adesso steward e hostess, offrono loro caffè, tè, cioccolatini. Una colazione atipica che precede lo spettacolo e che trasforma un luogo generalmente deputato alla presenza serale in ritrovo mattutino.

Questa insolita istantanea dello stabile milanese ben suggerisce l’intuizione che Davide Enia ha avuto e sviluppato con Eleusi. Consapevole del rischio di un teatro ridotto a occasione di clausura elitaria,  non sempre in grado di farsi cassa di risonanza e di adunanza, la scelta è stata quella di aprire le porte (se non quelle principali, quantomeno quelle laterali) alla comunità. La percezione dell’esperienza spettatoriale viene ribaltata e le abitudini totalmente scardinate. Per una mattina, il teatro rifiuta le sue tradizionali convenzioni temporali e offre al proprio interno una ciclicità assoluta. Il preludio alla performance collocata al teatro Grassi ne sembra una perfetta metafora: nei quindici minuti che precedono lo spettacolo, un cadenzato alternarsi di fade in e fade out delle luci di sala svela e oscura la platea. Una scelta poetica che solletica la fantasia del pubblico con varie possibili interpretazioni: dal tragitto del sole al battito del cuore, dalla ciclicità della storia alla caducità della vita. In ogni caso, qualcosa che fugge la momentaneità e mette radici nella circolarità, proprio come Eleusi.

Alessandro Stracuzzi


foto: Masiar Pasquali

domenica 11 giugno, ore 16:00, Teatro Grassi e Teatro Studio Melato

Una breve scritta avverte gli spettatori appena fuori dalla sala: «La performance richiama atti di violenza che si sono compiuti in questo luogo e prevede sequenze di nudo integrale». Riaffiora con prepotenza il ricordo di ciò che questo palazzo, solo ottant’anni prima, rappresentò per l’intera comunità milanese: un luogo di martirio in cui la Legione autonoma mobile Ettore Muti torturava e assassinava i partigiani milanesi.
La scena è spoglia e sinistramente bianca. Gruppi di curiosi popolano la sala nel cuore di un assolato pomeriggio estivo mentre Davide Enia osserva silenzioso la platea che si viene formando. Sette performer danno inizio a un susseguirsi di atti violenti all’interno della dinamica manifesta carnefice-vittima; ogni minuto che passa sembra spostare indietro le lancette dell’orologio portando lo spettatore a pochi passi dagli aguzzini e dalla memoria di ciò che è stato, nel preciso luogo dove effettivamente l’orrore  avvenne. Lontano dal voler proporre un istante di  “pacificazione” tra la memoria storica e la coscienza presente, l’autore chiude la performance con una riflessione lapidaria : per quanto si possano costruire monumenti alla memoria, il semplice ricordo non assolverà né potrà offrire alcuna redenzione al male compiuto.

Non passa molto tempo prima di raggiungere il secondo luogo che ospita il progetto. Le luci del Teatro Studio Melato che accolgono gli spettatori sono calde; l’atmosfera è pacifica, conciliante, avvolgente. Un ordinato coro di giovani donne intona canti sotto lo sguardo spaesato di una platea che non riconosce le coordinate spaziali della performance in corso. Il pubblico, privato del fronte classico di osservazione, assiste allo svolgersi di una performance uditiva da fruire collettivamente forse a occhi chiusi, forse no ma volta a offrire una redenzione possibile, laica o finanche religiosa (il repertorio dei cori è di tale indirizzo). Un’alternativa, forse, a quella mancata salvezza a cui il semplice ricordo non potrà mai assolvere.
Poco prima di concludere l’atto performativo, mentre un secondo coro occupa il fondo dello spazio scenico, una corista forse esausta, forse solo emotivamente provata si abbandona sul divanetto rompendo l’ordine e la compostezza dell’intera compagine. Il direttore, senza minimamente scomporsi, continua a condurre con severità e precisione, ma anche con grazia e morbidezza, mentre una donna si alza dalla platea e conduce la giovane corista qualche fila più in là. Continuano i canti, continuano i racconti della violenza subita dalle vittime dei conflitti in fuga dai teatri di guerra del mondo, ma questa volta non sono più tratte dalla memoria storica di ciò che è stato: la voce di Silvia Giambrone racconta storie contemporanee di migranti nati in un altrove molto meno privilegiato della Milano che sta ospitando il loro racconto. Quando tutto il coro dei Piccoli Musici, giunto al termine della propria performance, abbandona lo spazio scenico, lasciando il posto ai Piccoli cantori delle colline di Brianza, una spettatrice raggiunge la ragazza rimasta in sala per riprendersi e guardandola negli occhi esclama: «Grazie! Brava».
Che sia anche questa cura reciproca una forma di salvezza collettiva?

Ivan Colombo


foto: Masiar Pasquali

Una conclusione

Eleusi svanisce. È un mistero che si spegne, non torna, evapora con il calore che ha prodotto per ventiquattro ore. Nella giornata di domenica si sono susseguiti una serie di riti collettivi anche fuori dal teatro: il sagrato dello Strehler ha visto riunirsi gruppi di persone per compiere pratiche antiche, di una vita rurale d’altri tempi, come panificare insieme all’alba o fare la maglia. E ancora per godere insieme di un dj-set di musica classica. Dentro, i cori continuano a cantare, alternandosi; la performance continua a ripetersi allo scoccare di ogni ora e a evocare gli orrori dei fascismi. Poi tutto si silenzia, scompare. Rimane la festa fuori dal teatro, all’aperto, che prolunga ancora per qualche ora l’esperimento comunitario realizzato da Davide Enia, con un concerto di fanfare e un altro di musica popolare, e soprattutto con tanta gente che balla.

Eleusi non c’è più, ma è passata di qui, in questa comunità, in un preciso tempo. Enia ha offerto un momento di condivisione tra esseri umani, ha regalato un’esperienza sacrale, misteriosa, catartica. Il teatro è rimasto aperto come un tempio, dallo Studio Melato si poteva entrare e uscire a piacimento. Ciò ha prodotto un effetto religioso, di devozione e compartecipazione, di ascolto e preghiera, tragico e laico. Tanto sdegno vi fu quando, durante il periodo delle chiusure forzate, era possibile andare in chiesa e in altri luoghi di culto, ma non a teatro. Mai come allora – nel nostro tempo – il teatro era al centro del dibattito pubblico, politico e culturale. Si è detto e scritto molto per vivificare quel rito che è trovarsi a teatro e guardare insieme, nel tentativo di ripristinare quel senso di religiosità insito delle origini, rivendicando una cura collettiva per l’anima, in un tempo di distanze imposte. Eleusi di Enia scava in questi pensieri, attinge tanto da un immaginario lungo secoli quanto da un’esperienza recente e rende possibile una nuova forma di gratuità dello stare insieme, del bene comune, evangelica.

Lo stesso, con un asse tangente, si può dire di ciò che avviene al Grassi: un luogo che nel corso della sua storia ha ospitato atroci torture. Che la performance si ripeta per ricordare ciò che è avvenuto in quello spazio, per scolpirlo nelle menti, per far sì che ciò non avvenga più è di certo un pensiero possibile. Eppure nelle ventiquattro ore cambiano le persone sul palco e in platea, si rigenera la scena, la reiterazione sfuma i confini della percezione e alle quattro di notte si crea un’atmosfera differente che alle sette di sera. Allora, se i Greci, a teatro, osservavano insieme la rappresentazione della pòlis, anche noi oggi guardiamo le degenerazioni del potere, che mutano volti e forme e stagioni. Ma quando si ripetono, dopo un po’ di pausa, proprio come quella a cui assistiamo tra una performance e l’altra, tornano sempre uguali nella sostanza, delegittimando minoranze e schiacciando libertà e pensieri.

Ecco la luce di Eleusi: una comunità che si ritrova di notte, ad alternarsi nella veglia al fuoco. Un crepuscolo di resistenza, un canto del cigno, un tentativo di riscrittura di quei canoni antropologici, che ancora vedono le sale colme di retaggi borghesi? In Eleusi c’è il destino del teatro: se è vero che da due millenni e mezzo il guardare insieme costruisce comunità e valori, a noi cittadini di oggi spetta il compito di custodire e alimentare questo mistero, che perde le proprie tracce nei secoli e nelle culture, ma che ancora inseguiamo imperterriti.

Andrea Malosio


foto di copertina: Masiar Pasquali

ELEUSI
prima nazionale
di Davide Enia
produzione Piccolo Teatro di Milano – Teatro d’Europa

Teatro Grassi
musiche e regista assistente Serena Ganci
costumi Gianluca Sbicca
luci Manuel Frenda

dalle 21 del 10 giugno alle 2.20 dell’11 giugno
dalle 16 alle 21.20 dell’11 giugno
Valentina Bosio
Enzina Cappelli
Eleonora Gambini
Daniele Pilli
Luigi Maria Rausa
Simona Sala
Vito Vicino

dalle 3 alle 9.20 dell’11 giugno
Giovanni Consoli
Roberta Indolfi
Carola Invernizzi
Sebastian Luque Herrera
Emma Rebughini
Riccardo Rizzo
Giacomo Toccaceli

dalle 10 alle 15.20 dell’11 giugno
Gian Mattia Baldan
Giulio Cervi
Michele Ermini
Alessandra Indolfi
Alessia Lombardi
Lorena Nacchia
Beatrice Verzotti

Teatro Studio Melato
regista assistente Giulio Barocchieri
luci Manuel Frenda
in collaborazione con Cori Lombardia
performances corali per 24 ore continuative