Abbiamo incontrato Andrea Macaluso, fondatore e direttore del Lavoratorio, una mattina di metà ottobre, per farci raccontare la storia, le vicende, gli aneddoti di un luogo denso di storia e storie.
Cos’era il Lavoratorio prima di diventare lo spazio che è oggi?
Questo spazio era la ditta Mario Gianassi: borse per signora, cartelle da scuola, da legali e affini. Questo era il nome dell’impresa con cui mio nonno acquistò questo fondo e ne diventò il primo proprietario. Qui ospitò una di quelle attività tipiche della tradizione manifatturiera fiorentina di alto artigianato legato alla lavorazione della pelle e alla costruzione delle borse, secondo un processo creativo che comprendeva tutti quanti i passaggi – disegno, taglio, scelta delle pelli – fino alla realizzazione concreta. Mio nonno ha condotto questa attività dagli anni Cinquanta fino agli anni Settanta. Della storia di mio nonno e di questo spazio ho sempre sentito parlare in famiglia; purtroppo non l’ho mai conosciuto: è morto nel 1975, un anno prima della mia nascita. Questo luogo, dopo la chiusura della ditta, è stato affittato a un altro artigiano, un restauratore di mobili antichi, che ha avuto qui la sua attività per circa trent’anni. In questo spazio, che in famiglia si chiamava “il lavoratorio”, alla fiorentina, è sempre stato ospitato qualcosa di artigianale, di manifatturiero, di legato al lavoro manuale. L’alluvione è arrivata anche qui, ed è stata una grande ferita non solo per la mia famiglia ma ovviamente per tutta Firenze.
Cosa è successo il giorno dell’alluvione?
La mattina del 4 novembre del 1966 mio nonno ricevette una telefonata in cui fu avvertito che l’acqua stava salendo vertiginosamente. Mio nonno abitava qui vicino, in via Piagentina, e quella mattina, dopo la telefonata, scese subito a vedere com’era la situazione e cominciò a portare in salvo le pelli. Dopo poco si rese conto che, se avesse aperto la porta per uscire (quella che ancora oggi è la porta d’ingresso), sarebbe stato travolto dall’acqua, che era già salita a quasi tre metri di altezza. In pericolo, riuscì a salvarsi grazie alla famiglia che ancora abita qui di fronte, che in qualche modo gli gettò delle funi, permettendogli di uscire dalle finestre della sala. Arrivò a casa loro e lì passò la notte. Il giorno telefonò all’Ottica Fontani (che esiste ancora oggi) per venire a fare le fotografie e immortalare tutti i danni. Dopo l’alluvione provò a ripartire con l’attività ma non riuscì più a tornare agli splendori degli anni precedenti. Il mondo nel frattempo era cambiato: stavano aprendo le grandi ditte, la piccola industria manifatturiera era in grande difficoltà e nel 1970 il Lavoratorio chiuse. Di lì a poco mio nonno si ammalerà; secondo mia madre, anche a causa delle conseguenze di questa vicenda.
Come e quando nasce l’idea del Lavoratorio come spazio dedicato al teatro e alle arti performative?
L’idea nasce nel 2014: l’artigiano che lavorava qui aveva chiuso l’attività, così ci siamo trovati di nuovo tra le mani questo fondo di famiglia, senza sapere bene cosa farne. Io avevo accarezzato in maniera un po’ vaga l’idea di creare qualcosa di mio, dove poter ospitare miei progetti ma anche le creazioni di amici e colleghi che avessero bisogno di un luogo per studiare e per lavorare. Nel 2015 ho deciso di riprendere in mano questo locale e di ristrutturarlo, cercando di rispettarne al massimo la natura. Volevo che questo spazio continuasse ad essere un “lavoratorio”, di un altro tipo di mestiere però, di un altro tipo di arte, che è quella della scena. Ovviamente non è stato facile rendere concreta questa idea, ma poi ho pensato che forse poteva diventare un luogo aperto a tutti, non solo agli artisti. Finalmente nel 2016 abbiamo inaugurato Il Lavoratorio. È stato emozionante; curiosamente, ci siamo resi conto sol al momento dell’inaugurazione che ricorreva il cinquantenario da quel fatidico 1966. Era come se si rimettesse in moto una storia di famiglia a cinquant’anni precisi dal momento in cui si era interrotta. Una strana coincidenza non voluta, ma che mi ha commosso appena ne ho preso coscienza.
Ci sono altre realtà indipendenti che ti hanno in qualche modo ispirato nella realizzazione del Lavoratorio?
Mentre cercavo di mettere a fuoco quest’idea, ne parlavo con amici e colleghi artisti, che mi hanno segnalato dei luoghi che avevano questo tipo di caratteristiche. Io stesso ne ho visitati alcuni all’estero (ad esempio a Parigi, a Londra e a Berlino): teatri off, realtà piccole dove tuttavia alle dimensioni ridotte dello spazio corrisponde un’alta qualità della proposta artistica. In questi luoghi si può andare in una saletta per trenta persone a vedere un grande attore che presenta un proprio progetto, particolarmente intimo, che ha bisogno di un contatto ravvicinato con il pubblico. Si tratta di ambienti magici perché si vive un’esperienza, ben diversa dal comprare un biglietto, entrare in una grande sala e fruire insieme a centinaia o migliaia di persone di uno spettacolo. Mi fu segnalato un centro romano, Carrozzerie N.o.t., ubicato in una vecchia carrozzeria e guidato da Maura Teofili e Francesco Montagna: insieme hanno creato uno spazio affermatosi a livello nazionale nel giro di pochi anni, realtà propulsiva di nuovi talenti e nuovi progetti. Maura e Francesco mi hanno raccontato il loro percorso, che è stato per me estremamente utile, in quanto non avevo esperienza nell’organizzazione teatrale né le competenze per progettare da zero una struttura del genere. Ecco come è nata e come abbiamo strutturato la proposta, che poi è andata definendosi nei quattro ambiti della nostra attività: i corsi settimanali, i seminari di alta formazione, gli eventi della stagione e le residenze artistiche. Ho realizzato che questa era la risposta a un bisogno, che c’era veramente sete di una realtà simile in città.
A tal proposito, volevamo chiederti come questo spazio dialoga con il quartiere e la città. Esiste una sorta di comunità del Lavoratorio?
Credo che negli anni si sia formata una comunità, che è in continua evoluzione. È una comunità formata dalle persone che frequentano questo luogo, a più livelli: c’è chi partecipa ai corsi, chi viene agli spettacoli, chi fa i seminari, chi partecipa ai nostri eventi speciali. Si è creato sicuramente un nucleo di persone che credono in questa proposta e che apprezzano la cura e l’attenzione che viene data qui sia agli artisti che al pubblico. Credo anche che il luogo sia entrato in contatto con le realtà del territorio, anche se questo è un processo molto lungo: il quartiere nel quale si trova il Lavoratorio è prettamente residenziale e non ospita realtà simili. Dunque fare una proposta di spettacoli o di corsi serali è una novità che qui viene recepita con molta diffidenza, se non con totale ignoranza. Col tempo persone del quartiere hanno cominciato a frequentare questo spazio; ci siamo resi conto di quanto tuttavia sia più facile intercettare persone che abbiano un interesse specifico legato al teatro anche se magari sono lontane dallo spazio, piuttosto che persone che abitano fisicamente nei dintorni. La vicinanza fisica spesso non implica la conoscenza reciproca.
Cosa significa fare direzione artistica di uno spazio indipendente come il Lavoratorio? Quali sfide, anche e soprattutto a livello di reperimento di risorse, implica?
Dirigere uno spazio come questo implica un grandissimo sforzo, una fatica immensa che va avanti grazie alla passione. Per quanto mi riguarda, è anche una scoperta continua. Un fatto certo è che questa struttura deve reggersi unicamente con i contributi che i soci versano per partecipare alle attività. Questo significa che da una parte le attività proposte devono essere di alta qualità, perché altrimenti non incontreranno il favore di chi verrà a fruirle; dall’altra deve esserci uno sforzo costante per far sì che tutte le attività siano partecipate al massimo. Questo è il requisito minimo per riuscire a retribuire gli artisti e a stare in piedi come struttura. Grande attenzione è rivolta al contattare artiste e artisti importanti ma che allo stesso tempo capiscano e condividano lo spirito del progetto. Infine, è necessario stabilire un rapporto di fiducia con il pubblico. Chi viene qui entra in una casa, in un ambiente che ha al suo centro un legame umano e personale, ben diverso dalla modalità asettica con cui ci si reca nella biglietteria di un grande teatro. È una sfida, e ogni anno l’esito è incerto. Negli ultimi tempi, alle attività proposte si sono andati affiancando alcuni tentativi riusciti di richiesta di finanziamenti su progetto. La stessa Officina Critica esiste grazie al bando dei contributi ordinari della Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze: questo tipo di sostegno ha giovato al sostentamento economico della realtà.
Qual è stata per te un’esperienza memorabile da spettatore? C’è uno spettacolo in particolare che ti sentiresti di consigliare?
Ce n’è più di uno, ma il primo che mi viene in mente è Le notti egiziane di Pushkin, con la regia di Piotr Fomenko, il grande maestro russo scomparso nel 2012. È uno spettacolo che vidi al Teatro Fabbricone di Prato e che mi colpì per la bellezza assoluta di quello che vedevo, per la vita che c’era in scena, per il divertimento, la gioia, la capacità di coinvolgere il pubblico e di trascinarlo nella vicenda con quella meravigliosa attitudine russa che comprende la capacità di saper cantare, ballare, giocare, scherzare, affondare nel dolore e un momento dopo ridere con grande leggerezza. Lì ho visto la bellezza della vita in scena.
Emma Boschi, Francesco Cosenza
foto di copertina: Greta Merletti
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico Officina Critica