Chapter 1: “Love is truth”.
Un lunedì di fine ottobre. I veneziani non sono per niente intimoriti dalla possibilità dell’acqua alta. I turisti incuriositi dalle passerelle comprano gli stivali di plastica. Ci sono i classici gialli da pompiere, i neri da becchini. Qualche sciantosa ha puntato per quelli maculati, come se la Laguna fosse la Savana. Venezia, la città più fotografata del mondo. La caccia è aperta.
È il mio turno. Anzi, quello di Jan Lauwers, dopo Castellucci e Rodrigo Garcia. Ho visionato alcuni spezzoni di filmati su youtube. Mi aspetto roba forte, spregiudicata, tagliente, fisica, dura, d’impatto. Urban sound. Sangre y lagrime. Sangue e merda. Sudore, certamente.
Il Piccolo Arsenale ha poltroncine rosse con l’anima in legno. Dalle pareti spuntano, insieme minacciosi e protettivi, piccoli mattoncini bianchi sbeccati. A pochi passi da qui infuria la Biennale d’Architettura. Alle 10.30 in punto il Maestro, quasi spazientito, dice: “Cominciamo?!”. Freme. La puntualità prima di tutto. I diciotto ragazzi, da Spagna, Italia, Francia, Svizzera, Germania, Sud Corea, quattordici donne e quattro uomini, sono sul palco. Fanno stretching, si scaldano, si riscaldano. I vestiti larghi dai colori sgargianti, i calzini che calano verso le caviglie, che colano a terra. Sono danzatori, dopo tutto. Lui, lo chiameremo così da ora in avanti, sta in piedi sulla scena. Camicia nera, completo nero, calzini neri. Si è tolto le scarpe per salire sulle tavole sacre. Devozione, rispetto o soltanto comodità. Fuori sbatte lo scirocco. Dentro fa ancora più caldo. I ragazzi, età media sulla trentina, sono seduti a terra, lo guardano. A bocca aperta. Un Maestro è colui che insegna, che ha qualcosa da insegnare. Lauwers, allora, è un maestro. «Che cos’è il peccato?», esordisce. E mi viene in mente It’s a sin dei Pet Shop Boys. Pieni anni Ottanta. Le risposte sono altrettanto provocatorie. C’è qualcuno che vuol fare colpo: «Voglio scoprire nuovi peccati», «Far vedere la mia anima è un peccato», «Essere pronti ad amare è un peccato». Chapeau. Il Maestro ascolta. Ha uno sguardo per tutti. Ha carisma, i suoi modi sono soft. Muove le mani come un direttore d’orchestra. Fa esibire qualcuno che ha portato stralci del proprio repertorio.
La giornata sarà intensa, dalle 10.30 alle 13 e dalle 14 alle 18.30.
Io sto di lato, nell’ombra, a registrare la scena, il suo divenire, il suo farsi corpo e materia friabile. Testimone in disparte, dentro ma fuori, fuori ma dentro. Un mozzo sulla nave che va. Cronista e ghost writer. Osservatore, visionatore, critico nella penombra.
Sul palco si muove un esperanto divertente e funzionale. La voce come punto di partenza. E un’idea del teatro netta, precisa, decisa: «Il teatro deve essere per la vita, per la società, politico, non terapeutico». Icone snocciolate: Duchamp e Michelangelo, Shakespeare e Moliere, Rembrandt e Pina Bausch, fino a Marlon Brando e all’elogio delle sue corde vocali.
Lo schermo dietro, prima pieno soltanto di cartelle gialle e fredde da desktop, si anima nel bianco e nero e ci porge John Cassavetes che tenta di rianimare la sua lei. Ecco, vuole la stessa intensità, vuole i volti, vuole il dolore: the drama.
Nell’improvvisazione ci sono coppie sofferenti ed avvinghiate, indifferenti e nostalgiche, lontane, distruttive, devastate nei loro molteplici tentativi d’accoglienza. Il Maestro ripete spesso clear, pulito, pulite. Andare per sottrazione. Vuol vedere il gesto, la forza, la potenza. E poi energy. E ancora body. Le key-words sono servite. Abbuffatevi, servitevi. Spunta un microfono. Lo lascia lì. Che qualcuno lo colga come un fiore, che qualcuno se ne abbeveri sputandoci sopra e dentro le proprie litanie. A disposizione. Sta portando tutti dove vuole lui: sa cosa vuole, sa come cercarlo, come ottenerlo. Danza, microfono. È l’ora del “punto di rottura”, del Potere che entra in gioco, che si fa strada grazie a kapò senza scrupoli che interrompono giochi bucolici. Come nella vita. Si entra a piene mani nella materia, sulla sua cattiva strada. Le parole di una Salomè sono «very sexual anche dark». Un testo esplicito: ride, ridono, si diverte, si divertono.
C’è un buon clima nell’aria, un buon feeling, una bella atmosfera tranquilla, fattiva, produttiva. Manca l’accordatura dell’orchestra. Manca la velocità d’esecuzione, il ritmo. Ha chiaro il suo progetto, niente è lasciato al caso. Ultimo esercizio di giornata: una palla avvelenata, una patata bollente da passarsi attraverso microfoni e pezzi rimpallati, dall’inglese al francese e viceversa, tratte da Alberto Moravia. It’s a hard job. Come prima giornata può bastare.
Tommaso Chimenti