uno spettacolo di Massimiliano Civica
drammaturgia di Armando Pirozzi
visto al Fabbricone di Prato/Teatro Metastasio _ 7-19 marzo 2017

“Da tempo ormai la poesia si è sottratta al confronto con… come potremmo chiamarla?  Potremmo, in modo sbrigativo e inaccurato, chiamarla vita?”.
È il 1932, e Virginia Woolf condivide con il giovane scrittore John Lehmann, collaboratore della Hogarth Press, la consapevolezza e la frustrazione di uno iato che pare troppo difficile ricomporre (Lettera a un giovane poeta). Lo stesso interrogativo – e lo stesso senso di bruciante ma rassegnata delusione – anima il nuovo spettacolo di Massimiliano Civica, scritto da Armando Pirozzi. Non ha nulla di teorico, o di autoreferenziale, la questione: ed è questo il primo straordinario risultato che ottengono i due autori con Un quaderno per l’inverno, coniugando le forme di uno storytelling immediato, apparentemente lineare, ad una profonda meta-interrogazione sul senso e sui limiti della creazione artistica.

La vita – ciò che potremmo in modo sbrigativo e inaccurato chiamare vita – bussa alla porta di un professore universitario (Alberto Astorri), e ha un coltello in mano: è un maldestro ladruncolo di nome Nino (Luca Zacchini) che si introduce nell’appartamento del professore e vuole, pretende, esige una poesia. È, letteralmente, una questione di vita o di morte (di più non sveliamo, augurando allo spettacolo una lunga tournée).
Nelle piccole e calibrate reazioni di Astorri, nella sua modalità goffamente razionale di difendersi e contrattare, si riconoscono facilmente i vezzi legati a ogni forma autorialità: il distacco ironico dall’oggetto creato, come via per l’autotutela; la percezione della propria inadeguatezza di fronte alla richiesta di produrre; il senso di colpa per non aver fatto abbastanza o abbastanza bene; il contrasto cocente tra ciò che si dichiara a parole – cioè la necessità dell’arte – e la lucida consapevolezza dell’opposto.

L’arte può influire concretamente sul concatenarsi degli eventi? O è buona almeno a scaldarci l’inverno? Massimiliano Civica fa precipitare lo spettatore al momento della resa dei conti – senza appigli, senza divagazioni, senza orpelli – mostrandoci due esseri umani alle prese con il dolore e il fallimento. La medesima essenzialità si dispiega sul piano della drammaturgia e su quello della messa in scena: al punto che lo spettacolo lascia allo spettatore un’illusoria impressione di semplicità (non c’è nulla di semplice, mai, nel produrre un estratto, concentratissimo, di vite umane).
Pirozzi elabora un partitura testuale che ricorda certo Koltès, nel suo epurare la contemporaneità di tutti gli aspetti attualizzanti e descrittivi; Civica, dalla sua, conduce i due bravi attori con millimetrica precisione al confine tra comico, tragico e grottesco senza scendere definitivamente in nessuno di questi campi da gioco. E quella scena vuota, quelle poche sedie, quel tavolo bianco, diventano una tabula rasa dove gli elementi del quotidiano possono agevolmente trasformarsi in simbolo.

È il caso del sacchetto di arance tagliate, spremute e poi bevute sotto gli occhi del pubblico: alla rassicurante concretezza di quel frutto si appoggiano, quasi per prendere fiato, attori e spettatori. Ma proprio come accade nella vita – quando ci troviamo alle prese con scosse forti, capaci di alterare la nostra percezione della realtà –  quegli oggetti a cui ci stiamo disperatamente aggrappando si trasfigurano, perdono i loro contorni, si mostrano improvvisamente in tutta la loro dimensione simbolica. In questa continua dialettica tra astratto e concreto, tra particolare e universale si muove Un quaderno per l’inverno, cinquanta minuti di teatro affilato e purissimo. Pare quasi che Massimiliano Civica abbia donato al testo di Pirozzi tutto ciò che ha imparato dalla felice esperienza di Alcesti (2015); ricordandoci così che la drammaturgia contemporanea può avere la stessa potenza universalizzante del mito antico.

Maddalena Giovannelli