Dove sono finite Goneril e Regan, le due figlie malvagie di re Lear? Le vediamo entrare a braccetto, con fare misterioso e accompagnate da una musica d’archi incalzante, sulla scena del Lavoratorio: vestito rosso, occhiali scuri, capelli raccolti in uno chignon scomposto. Chiara Fenizi e Julieta Marocco, attrici protagoniste e registe insieme ad André Casaca, hanno scritto per loro un nuovo destino: Lei Lear.
Le due sorelle, libere ormai dalle leggi della tragicità, vivono e si esprimono in una dimensione quasi clownesca, attraverso scene, attimi, frammenti dominati esclusivamente dal senso dell’assurdo. La scena è disadorna, solamente buio e luce. Lo spazio è indefinito: è una stanza ma può dilatarsi fino a contenere una tempesta. Un muro invalicabile la separa dall’esterno, un cielo invisibile la sovrasta. Questo è il limbo in cui Goneril e Regan si trovano a fluttuare, forse imprigionate.
I due personaggi della tragedia shakespeariana si presentano come un marchingegno che si muove, pensa, parla all’unisono. Quasi sempre. È infatti una macchina tutta umana, che incespica nelle parole, balbetta, si contraddice. La loro inscindibilità è un’altra gabbia in cui Goneril e Regan sono intrappolate e da cui cercano di evadere. Questo è però impossibile, perché impossibile è stabilire i confini dell’una e dell’altra. Ogni tentativo di separazione fallisce e ogni distanza viene subito colmata. Goneril e Regan sono l’una lo specchio dell’altra, ma non lo sanno: si parlano alle spalle e si incolpano a vicenda, finendo però per smascherare ognuna sé stessa. Private di uno spazio e di un tempo reali, si (e ci) intrattengono con le loro abilità: recitano, danzano, mostrano la propria conoscenza della lingua inglese e battezzano con nuovi nomi gli spettatori. Giocano con le parole, le rendono vive, ne sono gelose: «Ridammi quella parola, è mia! Dove l’hai messa?!». Così come sono gelose dei propri abiti, tanto da costringersi a spogliarsi e a scambiarseli. Eppure, i loro vestiti sono identici.
Anche la morte, tema presente fin dall’entrata in scena – «Chi è l’assassino?… Sei tu!» – ha perso la sua dimensione più drammatica ed è diventata un passatempo di cui vogliono insegnarci i segreti. La morte aleggia sulle due figure attraverso i fantasmi che abitano questo luogo, uno in particolare: lo spirito del grande re e padre, che le osserva dall’alto e di cui temono lo sguardo severo. Re Lear è un padre distratto – «Una si fa in due e lui? Niente!» – a cui si offrono in sacrificio senza troppe smancerie: «Vuoi lei? Prendila! A me non serve». Resta il dubbio che loro stesse siano solo delle parvenze, due fantasmi di un passato che si mostra in controluce. Ed è un dilemma non solo dello spettatore, ma anche delle stesse protagoniste: «Sei morta?» / «Ottima domanda». Un sogghigno – residuo ultimo della cattiveria che un tempo le ha contraddistinte – scandisce lo spettacolo: gioco, tragedia o follia? È forse una danza scomposta in equilibrio precario tra vita e morte, verità e menzogna, sogno e realtà.
It’s Shakespeare.
Emma Vanni
in copertina: foto ufficio stampa
LEI LEAR
di e con Chiara Fenizi e Julieta Marocco
regia André Casaca, Chiara Fenizi e Julieta Marocco
consultor Francesco Ferrieri
coproduzione Scarti, Teatro C’Art e Muchas Gracias
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico Officina Critica #2