Conosciamo Mattia Torre soprattutto per Boris, dissacrante e tragicomica immagine del dietro le quinte della fiction italiana. In realtà, è uno scrittore a tutto tondo, per teatro, televisione e cinema. Per la sua ultima produzione, La linea verticale, si è mosso contemporaneamente su due fronti: la serie tv, andata in onda per la Rai lo scorso gennaio, e il romanzo (edito Baldini e Castoldi). Lo abbiamo incontrato a Tempo di Libri, dove presentava il suo libro, per chiedergli cosa l’abbia spinto a raccontare un argomento come la malattia.
Come si fa a mantenere un tono ‘leggero’ parlando di un tema come quello della malattia?
La storia che racconto prende le mosse dall’esperienza che ho vissuto in prima persona, un’esperienza pesante e leggera allo stesso tempo. In quel reparto di urologia, dove ero ricoverato per un tumore al rene, vivevo un paradosso: la malattia, proprio perché era ovunque, finiva in un certo senso per annullarsi. In quel contesto viene meno quel senso di angoscia e di morte che si potrebbe immaginare dall’esterno, tra i pazienti si creano rapporti umani molto forti, una sorta di fratellanza, e si vivono tutte le emozioni umane, compreso il divertimento e la comicità. Il tipo di mondo che ho avuto modo di conoscere era così sorprendente e vitale, da spingermi a usare la mia esperienza di autore e metterla al servizio di quella realtà. Nella storia si ritrovano poi alcuni esempi di grottesca cialtroneria tipica di certa sanità pubblica. Anche se, alla fine, sarà proprio l“istituzione totale” a salvare la vita del protagonista.
La scoperta di una malattia può spingere verso la fede?
Da un lato la malattia è come una bomba atomica: cambia il mondo e porta enormi incognite; dall’altro diventa un’occasione che contiene possibilità di cambiamento. La linea verticale è la testimonianza di una crisi vissuta in maniera positiva ed eccitante, e non solo con depressione. Volevo che il protagonista arrivasse a questa sintesi, dando un segnale di grande speranza al lettore. Se in tutto questo c’è una forma di spiritualità si trova nel rapporto tra esseri umani che hanno paura insieme: la tenerezza, l’affetto e l’amore che nascono tra compagni di un reparto hanno qualcosa di mistico. E forse non c’è bisogno di scomodare la religione.
In un’altra intervista hai definito Luigi, il protagonista, un “personaggio x”. Perché?
Perché di Luigi non sappiamo nulla: il cognome, la professione, il quartiere in cui vive, la formazione socioculturale. È un personaggio che conosciamo attraverso la sua voce fuori campo e le digressioni sociologiche e analitiche del narratore. Luigi è sostanzialmente un osservatore: volevo che rappresentasse una chiave di accesso per il lettore a quel mondo ospedaliero, favorendo il processo di immedesimazione in una doppia prospettiva. Da un lato quella del malato, completamente calato nella dimensione della degenza, dall’altro quella dell’ironia.
Chi ha amato Boris, amerà anche La linea verticale?
All’inizio ero terrorizzato per le aspettative che i “borisiani” potessero avere. Naturalmente, La linea verticale non è una serie così frontalmente comica: è più ironica, con una “temperatura” differente, che racconta fatti molto più tragici (sia chiaro: anche la depressione culturale italiana è un fatto molto tragico!). Invece, ho visto in molti commenti che i “borisiani” si sono sintonizzati su questo mondo diverso e lo hanno amato.
Cambiando spesso destinazione mediatica, quanto si modifica il tuo rapporto con la scrittura?
Non cambia poi così tanto: in ogni lavoro cerco sempre di trovare delle storie che abbiano un senso per me, storie che io per primo vorrei vedere da spettatore o leggere da lettore. Il filtro che uso è sempre quello della commedia e che si tratti di teatro, cinema o televisione, la ‘postura’ nello scrivere rimane sempre la stessa.
Perché la scelta di creare contemporaneamente il libro e la serie televisiva?
In realtà si è trattato di un caso. Stavo scrivendo dei “trattamenti” [il processo intermedio tra soggetto e sceneggiatura Ndr.] molto dettagliati, quasi letterari, per la serie. Un amico che lavorava nell’editoria mi disse che il testo andava assolutamente pubblicato. Così ho portato avanti in parallelo i due progetti. E anche se la vera stesura del romanzo è avvenuta dopo le riprese, onestamente non saprei dire con certezza cosa sia nato prima e cosa dopo. Ho scritto La linea verticale con scandalosa libertà, senza rete, seguendo molto l’istinto e le emozioni che provavo, capitolo per capitolo. Ciò vale tanto per il libro, quanto per la serie in cui ogni puntata è strutturalmente diversa dalla successiva.
Valentina Anedda
Cecilia Caruso
Questo contenuto è parte del laboratorio Fuori_riga, osservatorio critico su Tempo di Libri, a cura di Stratagemmi Prospettive Teatrali.