Due proiettori blu e una barra led, al centro un leggio e due microfoni ad asta, accavallati l’uno sull’altro. All’entrata del pubblico Roberto Latini è già in scena: in un angolo, scalzo, vestito di bianco; resta sul fondo con lo sguardo basso, compie brevi passi, girovaga su se stesso, concentrato, come chi si prepara a compiere un rituale. Piccole azioni: avanza dietro al leggio, toglie la giacca e la sistema con cura sul pavimento, poi ci sale sopra. Un corpo bianco, una silhouette bluastra in piedi su una nuvola bianca.
I versi di Mariangela Gualtieri iniziano a fluire sul paesaggio sonoro creato con maestria da Gianluca Misiti sul monologo del Non so dal Parsifal. In questo invito ad abbandonarsi al loop costante della lettura, alcuni termini si smarriscono in favore di altri, che al contrario emergono in tutta la loro potenza: non so, perdono, poco, Dio e poi angelo. Un angelo bianco, con gli occhi pesti e voce dolce e terribile, a metà tra cielo e inferno, accompagna gli uditori in un viaggio poetico che si snoda attraverso più raccolte dell’autrice. È un viaggio che si fa litania e canto alla vita, un giuramento per salvare la delicatezza del poco e del niente, quel niente essenziale da cui tutto viene.
La dinoccolata danza di muscoli, nervi e anima di Latini, il cui corpo non è mai rilassato ma sempre in bilico, sulle punte, è in perenne sforzo, come sull’orlo di un precipizio da cui tenta faticosamente di sottrarsi aggrappandosi al solo potere espressivo della parola. La delicatezza del poco e del niente è una danza senza sguardo, in cui la parola si fa corpo, ritmo e suono nell’essenzialità della messa in scena, nell’alternarsi denso e fluido delle aste e dei microfoni accarezzati, maneggiati con cura come fossero violini da accordare, pizzicare o suonare ad arco a seconda del pezzo. La voce di Latini si sdoppia in un contrappunto ipnotico e continuo di voci metalliche, distorte, e poi di toni profondi e avvolgenti. Torna allora il denso succedersi di suono e silenzio, di vibrati e versi spezzati, distorsioni e scalpiccii di parole sussurrate in segreto, a volte quasi cantate, come qualcosa di sacro, d’oltremondo.
Latini rinuncia a qualunque altra azione, facendosi da parte per essere, anima e corpo, medium della potenza della parola poetica: è quasi un gioco, basato sulla capacità magica del suono di eludere il cognitivo, al punto che per apprezzarlo non si deve far altro che cedere. Bisogna arrendersi a questa voce che lambisce con la cura di un innamorato e un attimo dopo colpisce duramente – con quel fascino che solo la repulsione può suscitare – quel bello, molto bello mondo di cui tutti noi facciamo parte e che sarà ereditato da cuccioli sciupati, indeboliti spaventati e soli. Un solo sguardo al pubblico arriva con l’ultima poesia, un lampo azzurro, una preghiera diretta di dolcezza e gentilezza per l’altro, nel nostro essere finitamente e infinitamente umani: uno sguardo di riconciliazione col mondo per il quale «ringraziare desidero», prima del buio.
Isabella Quaia
foto di copertina: ufficio stampa
LA DELICATEZZA DEL POCO E DEL NIENTE
poesie di Mariangela Gualtieri
regia e interpretazione Roberto Latini
musica e suono Gianluca Misiti
luci e direzione tecnica Max Mugnai
produzione Fortebraccio Teatro, Compagnia Lombardi-Tiezzi
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico Officina Critica