Durante la visione di Una vera tragedia abbiamo notato una possibile vicinanza (a livello visivo, fra luci e scenografia) allo stile di David Lynch e al suo Rabbits. È un riferimento voluto?
Favaro: Nello spettacolo questo riferimento non è sistematicamente ricercato, ma penso che sia parte di un substrato immaginario di riferimento che in qualche modo inevitabilmente traspare. In una fase inoltrata del lavoro mi sono ispirato a Rosemary’s Baby di Roman Polansky, che è anche il mio film preferito, al quale inizialmente non avevo pensato. Mi sono reso conto che la dinamica di “seduzione della normalità” è la stessa, però in quel momento è diventata una realtà concretamente legata all’esempio cinematografico. Credo che l’horror, ad esempio, abbia una fondamentale dimensione orizzontale, che è sia un suo limite sia un suo vantaggio, mentre la tragedia a un certo punto trascende l’orizzontalità, ed è una delle poche forme teatrali che riesce a farlo così distintamente.

Per un regista di teatro inevitabilmente scatta il confronto con il cinema, che riesce a trasmettere un contenuto anche tragico in modo molto coinvolgente. In che modo riuscite a raggiungere questa comunicazione empatica del tragico attraverso il teatro?
Favaro: Mi rendo conto che il titolo vincola, o perlomeno indirizza a pensare alla tragedia. All’inizio era una strada ironica, perché il testo si intitolava in un altro modo: Buchi bianchi. La definizione di tragedia, parola che poi è entrata nel titolo, e che io pensavo fosse semplicemente un modo per avvicinare lo spettatore senza svelare troppo, in realtà andava a costituirsi come qualcosa che aveva una propria efficacia.

Possiamo dire che il testo sulla parete è come un Grande Fratello che osserva e comanda? Quindi possiamo definirlo come la predestinazione della tragedia, una tragedia dei personaggi in scena?
Favaro: Una tragedia del linguaggio più che dei personaggi, direi. E delle lingue sceniche. L’idea di utilizzare un meccanismo di proiezione del testo sullo sfondo è arrivata successivamente. I sovratitoli non sono altro che il testo originario, che sulla scena viene censurato, soprattutto dalla figura del Ragazzo. Potrebbe sembrare che il testo prenda una sua identità, un suo corpo, invece semplicemente si limita a descrivere ciò che sarebbe successo se il Figlio lo avesse rispettato fino alla fine. La mamma (Madre) non è un personaggio vero e proprio, neanche il padre (Vater) lo è, neanche il Ragazzo lo è! L’unico è questo Figlio che, infatti, deve morire.

Questa forma di tragedia borghese del linguaggio contiene una riflessione sull’attualità? Vi è l’intento di trasmettere un messaggio politico, un monito?
Favaro: Penso non si debbano mai lanciare messaggi, però in qualche modo se uno compie un atto di astrazione mi sembra che abbia una sua dimensione metaforica abbastanza forte. La presenza di una scansione temporale non vuole dar luogo a un senso politico. Penso, invece, che il senso sia anche più individuale, e che faccia parte di un tessuto che prima ancora di essere sociale e familiare è interpersonale. Tant’è che il cambiamento non è solo in relazione all’altro ma anche in relazione a sé stessi.

Bandini: Sicuramente posso dire che lavorare con gli attori sulla parola è stato  un atto, non so se coraggioso, ma sicuramente importante. Sempre di più oggi “una parola vale l’altra”, ognuno è libero di esprimere la propria opinione, libero e scevro da qualsiasi tipo di responsabilità sulle parole che utilizza. Devo dire che lavorare con attori giovani e assumersi la responsabilità di ciò che si dice, cercando di scavare dentro essa, e restituirla poi a un pubblico, è veramente un atto che oggi definirei coraggioso! Cercare di lavorare su questo con dei ragazzi tra i 22 e i 25 anni può essere considerato un atto politico. Sono contento di questo tipo di lavoro e di lavorare su un linguaggio che va sempre più a impoverirsi attraverso i social, dove è libero nel senso anarchico del termine. La violenza del linguaggio è il fulcro su cui tenta di concentrarsi il nostro lavoro.

Infatti ogni singola parola di Una vera tragedia sembra avere un proprio peso specifico. Quanto è voluta questa consapevolezza?
Bandini: Abbastanza. Cerchiamo sempre di rendere il testo leggibile ai nostri coetanei, ma soprattutto per Alfonso (De Vreese) e Marta (Malvestiti) è stato difficile portare una figura materna e paterna in scena. Devi crearle senza essere macchiettistico, devi trovarle nel corpo, devi trovare loro un peso specifico che poi porti in scena. Gli attori hanno due anni più di me e cinque più di Flavio, quindi abbiamo cercato le parti nascoste di ciascuna battuta, per cercare di dar loro un certo valore.

Il doppio ruolo di Alessandro sia come co-regista sia come personaggio dello spettacolo ha cambiato la drammaturgia iniziale? Quanto ha influito il suo lavoro sul testo proiettato e su quanto poi i personaggi se ne discostano con le loro battute?
Favaro: Alessandro non ha influito molto su questo. Il testo e lo spettacolo sono cambiati radicalmente dopo aver fatto un’anteprima esattamente un anno fa: il processo di lavoro è un processo dialettico con la scena e c’è sempre un’egemonia, quella del palco. C’è la forma di autorevolezza di chi scrive, di chi progetta, di chi fa la regia; e poi c’è una forma di autorità che è quella della risposta scenica.

Bandini: Mi ricordo che lo leggemmo insieme e mi colpì veramente. Wow!, esclamai, ecco qualcuno che riesce a mettere sulla carta qualcosa che io ho esperito e che riconosco essere materia comprensibile a tanti ragazzi e diverse realtà. Già ai tempi il testo si prestava molto per la messa in scena scena: ad esempio era previsto che Mamma cambiasse continuamente identità. Prima era madre, poi diventava amante, poi figlia di Vater. Io ho cercato di tradurre in forma teatrale questo continuo cambio di identità.

Questa liquidità del personaggio che muta e cambia, e dello spettatore che in qualche modo vi si rispecchia, è secondo te la componente più contemporanea dello spettacolo?
Bandini: Penso di sì. Siamo continuamente chiamati a essere qualcuno di diverso: penso che un venticinquenne come me sia continuamente chiamato a rispondere a diverse necessità e richieste dal mondo esterno. Essere multitasking, essere continuamente giusti nella situazione giusta, essere qualcosa sempre! Allo stesso tempo ho trovato interessante il fatto che venisse denunciato in scena e non tenuto nascosto. Mamma è prima una cosa, poi improvvisamente, siccome il testo prende una direzione precisa, Mamma diventa un’altra persona.

Alessandro parlava di teatro come strumento di denuncia. Sembra che voi abbiate scelto come strumento specifico la tragedia. Cosa vi permette di esprimere la tragedia piuttosto che altri generi teatrali?
Favaro: Penso che la tragedia sia solo una questione di titolo. Non credo sia tanto una questione di adesione a una forma, perché una forma data, prima di essere tale, è il prodotto di un’abitudine. Però, si può determinare qual è il tipo di aspettativa che il pubblico ha rispetto a una forma. Allora giocare in quel territorio di confine formale aiuta, ma aiuta se non si cade in un’autodefinizione: occorre rievocare quel tratto comune con cui uno crede di avere confidenza. È proprio su quella aspettativa che si deve giocare: far mancare il terreno sotto i piedi. Per dirla con altre parole ricreare quel momento in cui dopo il due non arriva il tre!

a cura di Veronica Francia, Marco Paolozza, Sophie Marie Piccoli, Silvia Baldo


Una vera tragedia
di: Riccardo Favaro
progetto e regia di: Alessandro Bandini, Riccardo Favaro
con lo sguardo esterno di: Carmelo Rifici
con (in ordine alfabetico): Alessandro Bandini, Flavio Capuzzo Dolcetta, Alfonso De Vreese, Marta Malvestiti

visto al LAC di Lugano in occasione del FIT Festival 2020_13-14 ottobre 2020

Contributo pubblicato nell’ambito del progetto: