Prima di mettere in scena Fedra, in passato hai già affrontato la tragedia greca da attore, come nel caso del ruolo di Agamennone in Santa Estasi di Antonio Latella. Qui invece sei tu il regista: Come hai lavorato ora con gli attori? Che tipo di impegno gli hai chiesto?
Con quattro di loro era la prima volta che lavoravo, mentre con Christian La Rosa ho condiviso gran parte del mio percorso artistico. Credo di avere una particolarità rispetto a molti miei colleghi: chiedo sempre di avere in mente l’arco totale dello spettacolo, invece di soffermarmi sulle scene singole. Chiedo due cose agli attori: la puntualità, perché è un muscolo che va allenato per diventare puntuali anche in scena, e di non fingere di essere altrove. Questa volta è stato più difficile, perché il momento ci chiedeva di vivere quotidianamente l’incertezza del non avere un debutto e del non sapere quando avremmo terminato il lavoro. C’è voluto un altro tipo di approccio: ci siamo detti la verità, che è una cosa molto forte, e non abbiamo chiuso il lavoro, né drammaturgicamente, né per una data precisa. Questa volta non era come tutte le altre, non potevamo dimenticare di essere di fronte a qualcosa di più grande, per noi e per tutti, anche per lo spettatore. Abbiamo lavorato con questa incertezza, l’abbiamo portata dentro la drammaturgia, che proprio per questo non è univoca, ma si divide fra i punti di vista, a volte anche in contraddizione tra loro, dei tre personaggi principali. Penso di essere in grado di creare una drammaturgia più definita, ma questa volta non si poteva chiudere un quadro perfetto, perché il tempo ci chiedeva un’altra cosa.

Nella seconda parte della tua Fedra Teseo appare in scena, tornato dagli inferi. Se l’inferno che nella prima parte regna nella casa di Ippolito e Fedra è un fulcro dello spettacolo, dell’altro, cioè dell’inferno di Teseo, non ci racconti molto, neanche a livello simbolico. In che termini lo hai pensato? Come si relaziona con l’inferno della casa?
Per questa tragedia, il fatto che Teseo torni dall’inferno è diventato un elemento centrale nella drammaturgia. Il punto di partenza della mia riflessione è stato proprio quest’uomo, situato in un luogo non definito in alcun modo, se non per la solitudine. Questa scelta si lega a quello che è successo a marzo, quando stavo lavorando a un altro progetto e ho dovuto interrompere per il lockdown. Allora mi sono reso conto che era inutile andare avanti come se non stesse accadendo nulla. La scelta è stata di cambiare titolo e, con Rifici, mi sono chiesto da capo: cosa voglio raccontare? L’esperienza dell’essere chiusi in casa, in un luogo protetto, con una minaccia esterna che cresceva, insieme a una grande volontà di affrontarla, mi ha riportato alla sensazione del mito della sedia dell’oblio: Teseo raggiunge con Piritoo gli inferi, ma vi resta imprigionato per anni (prima dell’arrivo di Eracle) per colpa di una trappola di Ade. L’episodio mi è parso interessante per due motivi: perché Teseo si rapporta con qualcosa di più grande di lui e perché in quel mito è l’oblio che determina il tempo, non si sa quale sia il presente, il passato, il futuro; non si sa nulla. Non si può perciò sapere cosa sia la porta a cui Teseo batte, sappiamo solo che è un’esclusione, un luogo fatto di solitudine. Nella scelta del mito di Fedra, al centro vi è stata questa assenza, questo essere incapaci di gestire qualcosa di più grande. Anche Fedra si rapporta con qualcosa che la supera: è disarmata di fronte a quell’amore. Lo dice: «l’Amore è un dio troppo più grande di Zeus». Per me è qui il centro della scelta di questo mito oggi, nel nostro presente in cui anche noi abbiamo a che fare con qualcosa che ci supera.

Non solo Teseo, quindi, ma anche Fedra e Ippolito sono soli. La solitudine messa in scena può essere uno spunto di riflessione per il momento storico che stiamo attraversando. In questo senso, vale la pena tornare a interpretare i classici oggi? Pensi che abbiano ancora qualcosa da dire al nostro presente?
Ne vale la pena, certo: se i classici sono scelti e affrontati rispetto alle domande poste dal tempo in cui viviamo, allora il lavoro su di essi può essere utile. Quello che importa è la costruzione di un dialogo con il pubblico e, dunque, deve esserci un terreno comune per poter parlare allo spettatore, si deve partire da qualcosa di presente, anche se si parla del tragico greco. La cosa importante è non chiedere al pubblico di essere passivo e dargli uno spazio in cui può intervenire con la sua storia; non fornirgli soluzioni certe, ma dei riferimenti con cui può orientarsi in un viaggio personale. In un momento di spavento, spesso sembra che la soluzione più appropriata sia di dare risposte immediate, rassicuranti. Questo fa parte della nostra fragilità. Ma dobbiamo tornare a riflettere, soffermarci a guardare questo qualcosa che è più grande di noi e che ci fa paura. E il classico può aiutarci in questo; e può aiutarci anche a imparare a gestire l’attesa. La panchina è al centro del palco perché sta attendendo l’altro, come Teseo che, senza qualcuno che arrivi a liberarlo da Cerbero (che può essere il virus in questo momento), è destinato a stare sulla sedia dell’oblio per l’eternità. Teseo ha bisogno dell’altro, non può superare altrimenti un momento così tragico per la sua vita, quindi, nella mia drammaturgia, bussa per farsi aprire e attende. Nel teatro possiamo mettere in scena il classico del passato, ma è il presente la nostra certezza, che ci orienta e che lo reinterroga sempre.

Fedra non sta sul palco che per metà dello spettacolo. Ed è, fra l’altro, sdoppiata fra due interpreti. La “schizofrenia” dei personaggi, viste le crisi d’identità di Fedra, i loro continui cambi d’idea, il cambio di ruoli di Teseo, permette che vi sia davvero un solo protagonista?
Non è la prima volta che Fedra esce di scena dopo la parte centrale, ma sento che è importante che la centralità sia sua, che il nome del titolo sia il suo. È vero, non c’è un solo percorso in cui lei è l’unica protagonista. Sono tre i protagonisti, così come tre gli episodi: Fedra, Ippolito, Teseo. Al momento, però, lo spettacolo sta andando sempre più verso la riduzione a due blocchi di personaggi: Fedra e Ippolito da una parte, Teseo dall’altra. All’inizio il livello drammaturgico era pensato a tre voci, poi in prova ci siamo resi conto che i primi due facevano parte di un luogo simile, mentre Teseo era escluso da quel mondo. Per quanto riguarda la molteplicità di personaggi che interpreta Teseo, anche qui sta allo spettatore decidere se si tratti di più personaggi o di una persona che parla da sola.

Hai detto che la porta a cui batte Teseo è stata l’origine del tuo lavoro. È questa l’immagine che per te identifica il tragico oggi? Cioè un posto da cui non si riesce o non si può uscire?
No. Credo che la possibilità di uscirne ci sia. Per me il tragico è piuttosto l’incombenza di qualcosa di gigantesco, di troppo grande per noi. È il vederci molto piccoli rispetto a un evento. Questo è Medea, Fedra, gli Atridi. Qualcosa che non riusciamo a gestire con i mezzi che abbiamo a disposizione. Abbiamo bisogno di un altro alfabeto. Credo sia questo il tragico oggi.

Nel tuo spettacolo i personaggi si rapportano in diversi modi con la loro tragedia, con “qualcosa di più grande” che gli si impone: Fedra si suicida, Ippolito è distante per scelta. Quanto riescono a risultare attuali queste posizioni dei personaggi davanti al tragico?
Ognuno umanamente si rapporta alla tragedia con le proprie forze, la propria esperienza, le proprie capacità. Nello spettacolo ci sono almeno tre modi di rapportarvisi: quello di Fedra, che si pone il dubbio del rapporto fra istinto e ragione. Quello di Ippolito, che ha paura di rapportarsi con ciò che lo supera e che quindi si nasconde nella selva. Ma è troppo facile! Anche di fronte alla situazione che stiamo vivendo oggi è possibile assumere questa posizione: negare il problema, dire che non esiste piuttosto che affrontarlo. C’è poi l’esperienza di Teseo, che è costretto a essere solo, separato dagli altri. Ho pensato ai tanti che sono obbligati dal virus a stare lontani e a utilizzare un filtro per parlare, per non impazzire, per non essere completamente isolati. Il nostro filtro, in questo caso, può essere il teatro.

Un teatro per non impazzire, per non essere soli durante una pandemia che chiede distanza e isolamento. In un certo senso potremmo di re che la tua è una tragedia contro la tragedia contemporanea della solitudine. E fuori dal teatro, come si esce dal tragico?
Proprio con l’esternazione, credo. La condivisione dell’emozione, anche quando essa è negativa. Quando escono dal palazzo, tanto Medea quanto Fedra, escono per comunicare la propria «sventura». Teseo alla fine si rivolge ai cittadini: «Siamo qui per parlare di un evento tragico». Cioè siamo qui, soprattutto, per parlarne. Così diventiamo Cupido, diventiamo messaggeri di un’emozione. La salvezza sta nel condividere le emozioni anche quando sono fonte di malessere: il dolore, quello che tutti proviamo, può diventare un terreno di dialogo.

a cura di Marta Pizzagalli, Lisa Riva, Ida Soldini


Fedra
testi di: Seneca, Euripide, Ovidio, Sarah Kane e Rithsos
adattamento e regia di: Leonardo Lidi
con: Alessandro Bandini, Leda Kreider, Christian La Rosa, Francesca Porrini e Maria Pilar Pérez Aspa
disegno luci: Marco Grisa
assistente alla regia: Alan Alpenfelt
produzione: LAC Lugano Arte e Cultura

visto al al LAC di Lugano_29 novembre 2020 

Contributo pubblicato nell’ambito del progetto: