Il Vangelo secondo Antonio
regia e drammaturgia di Dario De Luca

“Sei quello che sei, ma non ci sei”: le note di Gianni Bella accompagnano la discesa agli inferi di don Antonio, parroco di una piccola comunità che, ammalatosi di Alzheimer, perde progressivamente la capacità di compiere anche i gesti più semplici e quotidiani. La malattia “ha il nome di un cacciabombardieri tedesco, che lascia crateri, spara bombe” e infatti la quotidianità di Don Antonio viene minata, salta quasi per aria. Al posto degli impegni presi per soccorrere profughi o gestire terreni sottratti alla mafia, rimangono solo farneticamenti notturni, funzioni celebrate come un disco rotto e parole che smarriscono il loro senso. Don Antonio precipita in una perdita di sé tra coscienza e incoscienza (“Qualche cellula del cervello mi ha lasciato, ma che devo fare, stare in lutto per ciascuna?” dice in una telefonata al vescovo), tra paura e abbandono, tra nervosismi e disperata ricerca di affetto. Nella spirale di oblio in cui cade, Antonio (Dario De Luca) allontana da sé anche le due figure che lo hanno sempre assistito: Fiore (Davide Fasano), giovane diacono che, pur non tradendo mai l’affetto sincero per il suo maestro, farà della sua malattia la propria occasione di carriera e la sorella Ricordina (Matilde Piana), che porta inscritto nel proprio nome – antifrastico alla malattia del fratello – tutto il dolore che prova per lui.

Il dramma forse ancora più profondo ed amaro che Dario De Luca porta in scena con grande profondità psicologica, è quello di chi assiste il malato: “Il dolore non lo prova il malato, ma chi lo assiste” dice Dina affranta. Di fronte alla metamorfosi del fratello, alla sua progressiva regressione infantile, al suo smarrimento, ella è smarrita a sua volta. Ora incredula, ora stizzita, ora spaventata, ora ironica, quasi sarcastica, Dina è ‘perpetua’ nel coraggio di stare accanto al fratello, non senza cedimenti e fragilità. Attraverso questo personaggio, De Luca conduce lo spettatore tra le pieghe più recondite dell’animo umano, laddove si celano la meschinità e la piccolezza che solo un dolore straziante come quello di una malattia degenerativa porta alla luce. La sua indagine non si ferma qui, ma prosegue in un confronto con il sacro che non è né moralistico né retorico: De Luca, ideatore ed interprete di Don Antonio, attraverso la smemoratezza del protagonista, spoglia il rapporto con il divino di ogni sovrastruttura e ne fa un afflato spontaneo, quasi innato: così l’icona di Cristo ‘scesa’ dal crocefisso è riconosciuta dal parroco malato come qualcosa che lo “riguarda personalmente”. È questo svelamento crudo delle debolezze e delle grandezze della psiche forse l’atto più coraggioso di uno spettacolo che non osa invece troppo dal punto di vista formale. La scenografia si àncora a una dimensione ipernaturalistica: la forza dell’immagine cristologica è tale da rendere superflua la pesante struttura che diviene ora altare, ora tabernacolo, ora confessionale, e infine sfondo di una sacra rappresentazione. L’indagine sul terreno metafisico del sacro potrebbe muoversi più leggera libera dai vincoli e della ridondanza di dettagli concreti.

Valentina Provera