Michele Di Giacomo, 37 anni, è attore e regista e, dal 2020, anche direttore del festival “Fu Me”, ideato e organizzato dallo stesso Di Giacomo a Cesena, sua città d’origine. Anche la sua compagnia, Alchemico Tre, fondata nel 2015, è particolarmente attiva sul territorio romagnolo con progetti di formazione in collaborazione con i principali enti teatrali della regione. La nostra chiacchierata si è mossa sul filo conduttore del passaggio tra under e over 35: un confine solo formale o reale? Una questione che investe da vicino Di Giacomo sia nella sua veste di artista, sia in quella di operatore impegnato a 360 gradi nel settore teatrale.
Quando hai fondato Alchemico Tre avevi trentadue anni e, come interprete, un curriculum attoriale di tutto rispetto. Cosa ti ha spinto a creare una compagnia?
Alchemico Tre è nata dalla volontà di mettermi in gioco come autore, soprattutto sul mio territorio, attraverso spettacoli di drammaturgia contemporanea ma anche iniziative culturali, corsi e attività. Nel primo spettacolo, In trincea, ho avuto la fortuna di essere sostenuto da ERT, che ha messo a disposizione una lunga residenza per le prove e mi ha permesso di girare con repliche. Una collaborazione proficua che è continuata anche nel secondo lavoro, Le buone maniere, prodotto proprio da Emilia Romagna Teatro. Inoltre, come compagnia, possiamo occuparci anche di progetti sul territorio, laboratori teatrali legati alla didattica e ai temi civili. Questa parte di attività di Alchemico Tre è fondamentale, perché ci permette di lavorare a contatto con il pubblico giovane e di svolgere, attraverso il teatro, un vero e proprio servizio. La funzione pubblica e sociale del teatro è essenziale dal mio punto di vista, tanto che anche gli spettacoli che mettiamo in scena ruotano sempre attorno a temi di attualità.
Collaborazione con ERT a parte, come sei riuscito a portare avanti i tuoi lavori?
Come fanno molti: partecipando spesso a bandi. In prevalenza comunali ma, a volte, anche regionali.
Appartenere alla fascia d’età under 35 è stato un requisito utile per accedere a questi bandi?
Devo dire che – almeno in quelli a cui ho partecipato io – figurare tra gli under 35, non è sempre stato uno dei requisiti essenziali. Certo, in qualche caso è capitato e, pensandoci a posteriori, si è dimostrata un’opportunità più che un elemento discriminatorio. Un’opportunità che, confesso, non ho mai colto fino in fondo, essendo arrivato ai trent’anni con una serie di conoscenze e contatti personali che mi sono stati molto utili.
In generale, credo che porre un discrimine sui 35 anni non abbia molto senso: dai 30 ai 40 anni non cambia quasi nulla nel nostro sistema teatrale. In Italia, anche se hai 36 o 37 anni, non è affatto scontato aver ottenuto conferme che ti assicurino una continuità lavorativa, né che tu abbia relazioni utili o disponibilità economica. Purtroppo il meccanismo italiano non permette alle giovani compagnie di strutturarsi: sono quasi sempre escluse dal FUS e se ci rientrano devono poi garantire moltissime date che, non sempre, possono sostenere. Ecco perché credo che più che una sola categoria under 35, sarebbe utile creare due fasce di età diversificate: bandi dedicati agli under 30 e bandi dedicati agli under 40. Sarebbe importante per dare un sostegno vero da una parte ai giovani artisti che hanno bisogno di farsi conoscere e dall’altra a chi ha già creato una rete di rapporti ma ha bisogno di aiuto concreto per la produzione e la distribuzione dei propri lavori.
Per quanto riguarda i progetti di formazione però Alchemico Tre si rivolge proprio a fasce “under 35”. Non risulta un po’ ampia anche in questo contesto come fascia anagrafica?
Sì, è una fascia molto ampia, che include le scuole con i progetti di alternanza scuola lavoro, gli adolescenti ma anche i ventenni e gli universitari. Credo sia fondamentale rivolgersi a una fascia ampia di giovani, perché sono le generazioni che, soprattutto ora, rischiamo maggiormente di perdere come pubblico, in particolar modo in provincia. Nonostante il territorio romagnolo sia piuttosto vivo per quanto riguarda il teatro, la dimensione provinciale è molto forte e le giovani generazioni vanno poco a teatro, considerandolo ancora come qualcosa di distante, se non addirittura di vecchio, che non li riguarda. Quindi, per me, come artista e operatore culturale è fondamentale rivolgermi a questa fascia, perché è quella che potrebbe disertare i teatri nel futuro. Quello che tentiamo di fare come Alchemico Tre è far capire ai ragazzi che il teatro parla a ognuno di noi in prima persona e che uno spettacolo dal vivo è uno strumento per esprimere la creatività dell’oggi.
Quali sono i progetti principali con cui portate avanti questa attività?
C’è “Ricreazioni”, un progetto che organizzo ormai da tre anni con le classi delle scuole superiori e in cui scelgo un tema in base al quale fare incontrare gli studenti con alcune associazioni culturali che possono offrire spunti di riflessione sull’argomento, creando dei piccoli percorsi di formazione. I ragazzi scrivono dei testi che poi io cucio insieme utilizzando anche altre drammaturgie esistenti. Abbiamo lavorato su temi complessi: il coraggio, la cura e, quest’anno, l’utopia, un progetto, quest’ultimo, per cui mi sono avvalso delle Città invisibili di Calvino e che si è trasformato e si è trasferito anche online: il testo di Calvino diventerà una sorta di video racconto in cui compariranno i luoghi utopici della città di Cesena scelti e raccontati dai ragazzi. Il territorio e la storia della regione sono spesso al centro dei progetti di Alchemico Tre: indaghiamo il passato per raccontare qualcosa ai giovani sull’oggi. Nel nostro lavoro è fondamentale filtrare la memoria attraverso gli occhi del presente, quindi quelli dei ragazzi. Ad esempio ora grazie al contributo della Regione Emilia Romagna stiamo raccontando ai ragazzi la storia del lavoro e dei lavoratori nel 900 a Cesena con il progetto “Tre Ciminiere” e nel 2019 insieme all’associazione Le città visibili abbiamo raccontato Il giardino dei Finzi Contini con una serie di laboratori e performance patrocinati dal Comune di Cesena all’interno del progetto Memoria del Novecento, finanziato dalla regione Emilia Romagna.
Nonostante la pandemia, quest’estate hai organizzato un festival a Cesena, “Fu Me”. Come è stato organizzare un evento del genere nel bel mezzo di una situazione di emergenza?
Sicuramente è stato molto complicato, ma anche bellissimo. Io, con Neera Pieri, Valentina Montali (rispettivamente organizzatrice e tecnica di Alchemico Tre) e Alex Monogawa (che si è occupato della parte musicale) siamo riusciti a organizzarlo in due mesi. Abbiamo contattato dei colleghi e amici che stimiamo e che sapevamo avrebbero portato dei bei lavori. È stata una vera sfida, prima di tutto perché nessuno negli ultimi 15 anni aveva mai portato drammaturgia contemporanea d’estate a Cesena tramite un festival. Portare i giovani a vedere degli spettacoli pagando un biglietto non è facile, perché non offri una serata di solo intrattenimento ma una proposta culturale. Abbiamo deciso di proporre un tema per ogni serata, che veniva declinato in modo diverso dai vari ospiti secondo la loro personalità con spettacoli, incontri e concerti. Tutto il festival è stato proiettato sul futuro. Per me era importante che le varie cornici costruite intorno ad ogni tema potessero offrire degli spunti di riflessione e dibattito , ma soprattutto che creassero delle memorie: una conseguenza fondamentale per il teatro dal vivo. La memoria è qualcosa di diverso dal ricordo, perché si fissa nel nostro corpo sulla base dell’esperienza vissuta. Per me i tre giorni di “Fu Me” sono stati creazione di esperienze condivise, utili per immaginarsi insieme il futuro, in un momento difficile in cui eravamo appena usciti dal primo lockdown. E soprattutto era importante farlo con i ragazzi: uno dei motivi che mi rendono più fiero è che abbiamo avuto moltissimi under 30 nel pubblico.
A proposito di immaginarsi insieme il futuro: in questo momento come vedi il futuro di chi fa teatro, soprattutto per quanto riguarda i più giovani?
La situazione attuale è difficile per tutti, ma soprattutto per chi non ha le spalle coperte dal punto di vista economico, ossia le compagnie. Il governo ovviamente ha stanziato alcuni sostegni che però sono elargiti solo a chi rientra in alcuni parametri. È chiaro che non si possono distribuire fondi indiscriminatamente, però bisogna considerare anche che le compagnie sono un organismo complesso, bisognerebbe quindi mettere in campo strumenti che possano supportarle o che, quantomeno, spingano i teatri a farlo quando si riaprirà, proponendo date, produzioni e co-produzioni.
Cosa pensi del teatro online?
Quest’anno molti bandi sono stati incentrati sull’innovazione e sull’online, alcuni teatri si sono adeguati ma molto è venuto fuori dalle compagnie. Del resto sono abituate ad essere flessibili sia per quanto riguarda gli orari e le modalità di lavoro sia per un atteggiamento di spirito e hanno saputo adattare i loro progetti, talvolta sono riuscite persino a innovarsi e sfruttare questo momento per capire come introdurre nuovi linguaggi. Certo quella attuale non è la normalità – io credo fermamente nel teatro dal vivo – ma penso anche che l’apertura alla novità sia molto importante. È bellissimo che le compagnie stiano facendo questo sforzo: se ci sono dei barlumi di luce nel nostro presente io li vedo proprio in questa attività di ricerca. Da qui potrà nascere una creatività nuova, se saremo in grado di rielaborare un presente negativo, trasformarlo in un’opportunità. In questo momento ci stiamo appoggiando anche a professioni non sempre usate in teatro come i videomaker o i webdesigner e programmatori, con cui stiamo dialogando e collaborando per comprendere i meccanismi di un tipo di lavoro che non è il nostro. Un altro sintomo di una spinta verso l’innovazione che non può che essere positiva.
a cura di Caterina Rebecchi