Siamo ormai verso la fine di UNTITLED, quando i danzatori della Giovane Compagnia Zappalà Danza si schierano, larghi, sul palco e cominciano a saltellare su una traccia tribal-house. Semplicemente seguono il ritmo e saltellano. Continuano a saltellare per un tempo indefinito che appare però più lungo del necessario. E, seduti tra il pubblico, viene da pensare: “Suvvia, questo potrei farlo anch’io!”. E forse è anche vero, il nodo è altrove: quel saltellare è il punto di arrivo di un ideale percorso di progressiva semplificazione. La gestualità essenziale portata in scena dai coreografi Daniela Bendini e Moritz Ostruschniak con UnTITLED si dipana infatti lungo un ampio catalogo di pose e di movimenti tratti dall’immaginario artistico pop e dalle pratiche pubblicitarie. Il procedimento si è ripetuto uguale a sé stesso per ogni sezione della messa in scena: di base c’è una musica più o meno ritmata mentre i danzatori, vestiti di pantaloncini e t-shirt, si muovono, ora a coppie, ora individualmente. Tutti i loro movimenti sembrano richiamare modelli massmediali: il ritmo, la velocità, e soprattutto la riconoscibilità del linguaggio rendono l’insieme accattivante ed entertaining.
Ed è così che, piano piano, ci si accorge che la scelta di portare in scena la quotidianità stereotipata del movimento – quel saltellare alla portata di tutti – è sicuramente una provocazione. O forse addirittura un’accusa. Lo spettatore, infatti, ha la vaga sensazione di essere lui l’oggetto della rappresentazione. Quante volte infatti gli sarà capitato di imitare consapevolmente un modello, di scegliere una forma non originale? E allora sulla poltrona comincia a “scarrellare” i ricordi per arrivare a scoprire che anche lui una volta, in discoteca, non volendo sembrare goffo, dovette tentare di mimare con scarsissimi risultati i movimenti di una pop star qualsiasi vista chissà dove. Il risultato, inautentico e banale, pure restava il suo risultato, un risultato vero: la riproduzione di forme già viste e consolidate provenienti da un certo immaginario condiviso e accettato. E per quanto le implicazioni fin qui siano già abbastanza complesse e compromettenti, UNTITLED aggiunge ulteriori spunti di riflessione: i danzatori parlano, si atteggiano, impersonano quello che pare voglia essere un carattere anch’esso stereotipato e parodico. Il rovello allora torna ancor più potente in chi assiste: quella volta in discoteca, s’intendeva solo imitarla o proprio essere quella pop star? Posta in termini più ortodossi: la scelta della propria posizione nello spazio, del proprio modo di muoversi è solo questione di mimetismo estetico o coinvolge la morale e l’identità dell’essere umano? Sembravano solo saltelli e invece…
Ferdinando Solimando
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MILANoLTREview