a cura della Redazione
Siamo all’ex Birreria Peroni di Miano, a pochi passi dall’hinterland più malfamato d’Italia, tra Scampia e Secondigliano, appena voltate le spalle alla Reggia di Capodimonte. In uno spazio post industriale adibito a multisala teatrale, i ragazzi del laboratorio Punta Corsara di Scampia, diretti da Emanuele Valenti, mettono in scena un Molière tutto da ridere, vitale, colorato, commovente.
Poco più in là, nella seconda sala, François Chattot dà magistralmente corpo a un nevrotico Amleto mascherato da attoruncolo di burlesque in Cabaret Hamlet, il complesso riallestimento della tragedia scespiriana, diretto dal tedesco Matthias Langhoff.
In centro città, tra gli ultimi eventi, il Tokyo Ballet riempie il San Carlo e l’ex teatro di Eduardo, il San Ferdinando rimesso a nuovo, ospita L’uomo che dava da bere alle farfalle, il lavoro multimediale del regista Juan Carlos Zagal.
Si è chiusa così, domenica 27 giugno, la terza edizione del Napoli Teatro Festival Italia: 94 spettacoli in cartellone, comprese le 37 proposte di giovani compagnie che hanno trovato spazio nella rassegna parallela, il Fringe. In totale, 24 giorni tra rappresentazioni, performance, eventi e incontri che hanno coinvolto l’intero tessuto metropolitano e l’hinterland napoletano, dal Rione Terra di Pozzuoli al cuore dei quartieri spagnoli, dal dormitorio di via San Biagio dei Librai al Maschio Angioino, per un totale di 108 mila spettatori, oltre 30 mila in più rispetto alla seconda edizione, come ha annunciato nella conferenza stampa conclusiva Renato Quaglia, direttore artistico del Festival.
A conclusione della manifestazione, è il momento di bilanci anche per la redazione di Stratagemmi, che quest’anno ha seguito il NTFI da vicino, partecipando al concorso di critica teatrale Lettera 22 e scrivendo per il sito del Festival.
In pochissimo tempo, se si considera come vanno le cose in Italia, il Festival di Napoli ha assunto una sua fisionomia riconoscibile. È la rassegna che, in pectore, può trasformarsi nell’Edimburgo nostrana. Franco Cordelli, critico del Corriere della Sera, ha scritto che Napoli ha battuto Spoleto o, meglio “ne ha preso il posto rimasto vacante per lunghi anni. A Napoli ora si può trovare di tutto per un intero mese, di tutto e addirittura di troppo”.
Sta in questo avverbio la chiave per capire la specificità del Festival. Ancora, su l’Unità di sabato 12 giugno, l’inviata a Napoli Rossella Battisti scrive: “Troppi indirizzi, troppe miscele per dare al NTFI un’identità precisa: alla sua terza edizione il Festival conferma una sola caratteristica, quella di vulcano in gestazione. Un laboratorio sfavillante di esperimenti (…)”.
E se questo troppo non andasse letto in accezione negativa, ma nascondesse invece il segreto di una formula fortunata? La ricetta per gestire il Festival di domani senza soccombere all’inevitabile stanchezza di un triennio di lavoro o alla facile tentazione dell’appiattimento istituzionalizzato, tendenza cui i teatri italiani spesso ci hanno abituato? Le premesse perché questo non accada ci sono.
Per tre ragioni. La prima sta nella capacità di attrarre anche chi al teatro convenzionale non si avvicinerebbe. Ecco quindi Bizarra, la prima teatronovela europea, che ha visto un pubblico di affezionati spettatori tornare al teatro Sannazzaro sera dopo sera e cantare a memoria la sigla di apertura con la compagnia. Ancora, con El Diego hanno messo piede nel tempio del teatro partenopeo, il San Carlo, gli innumerevoli tifosi del santo laico Maradona: su uno schermo venivano proiettati i suoi goal, accompagnati dalle note del maestro De Simone.
In Piazza Plebiscito, lo spettacolo poteva essere seguito, gratis, da chi non era riuscito ad avere il biglietto, ma non voleva rinunciare ad ascoltare il video-messaggio di Diego, spedito appositamente dall’Argentina.
Grazie ad esperimenti come questi il Festival ha manifestato la chiara intenzione di volersi cucire addosso alla gente, ai napoletani soprattutto, ai giovani ancor di più. Non è solo la città che si fa teatro, è il teatro che abita la città, la ripopola, la rivitalizza. È anche un tentativo di fidelizzazione, da Bizarra in poi, che darà i suoi frutti nel tempo, se la direzione in cui il Festival continuerà a muoversi rimarrà la stessa.
Il secondo motivo di vitalità del NTFI sta in quello che Quaglia chiama con orgoglio “modello Napoli”. Ovvero, l’impegno a selezionare e promuovere in cartellone tutte quelle categorie di progetti capaci, fin dalla carta, di stupire, attirare l’attenzione, far parlare di sé perché troppo o troppo poco pop, troppo o troppo poco studiati a tavolino, troppo o troppo poco ingenui. In questo senso si deve allora leggere la decisa volontà di produrre o coprodurre autonomamente molti degli spettacoli e così vanno interpretati i testi appositamente commissionati per il Festival, ma anche il tentativo di far nascere una Compagnia teatrale europea e l’attenzione a esperienze multilinguistiche e multiculturali.
Tutto ciò ha inevitabilmente un rischio. Che tutti gli ingredienti selezionati, dalle compagnie internazionali formatesi per l’occasione, passando per i giovani talenti della regia, fino alle drammaturgie appositamente plasmate sul carattere e sulla topografia della città, non si amalgamino come la ricetta vorrebbe. Ma per un Festival-laboratorio che non desidera essere un mero elenco di spettacoli, né tanto meno misurare il successo soltanto dai numeri, non deve essere questa la preoccupazione maggiore.
Certo l’azzardo necessita consapevolezza e capacità di autocritica. Sembra averlo capito Quaglia, che a conclusione della rassegna ha commentato di non essere soddisfatto di alcuni lavori sui quali un mese prima aveva puntato ritenendoli portabandiera del suo format. Qualche esempio. Dell’ibrido Romeo e Giulietta di Zeldin sarebbe sbagliato cantare le lodi. Bisogna poi ammettere i limiti di uno spettacolo come il Delitto e castigo di Ventriglia nei quartieri spagnoli, che non ha convinto. Dell’esperimento in 3D di Sicca si deve lodare l’originalità della forma, ma sul risultato finale si può discutere. E via dicendo.
Come prenderne atto? Quaglia ha già annunciato che l’anno prossimo creerà una forma di tutoraggio per i progetti autoprodotti dal festival, in modo da evitare alcuni grossolani errori di taratura sulla reale qualità del prodotto prima della sua presentazione.
Se sui giovani la direzione del Festival ha certamente deciso di investire – e lo ha fatto con forza dando uno spazio consistente all’E45 Fringe Festival, di cui leggerete nelle prossime pagine – non si può non notare la totale assenza dal cartellone di una categoria significativa. Si tratta di tutti quei nomi che animano le scene off delle principali piazze teatrali italiane, di quelle inedite proposte di cui Palazzi ha parlato con soddisfazione nell’incontro del 5 Giugno al PAN (il Palazzo delle Arti di Napoli) e che oggi rappresentano a pieno titolo la scena teatrale nostrana, conferendole una peculiare identità. Un Festival che lavora nella prospettiva del laboratorio dovrebbe forse offrire anche un’occasione di confronto tra chi si è già spianato una piccola via sul difficile terreno teatrale italiano e i nuovissimi talenti, che hanno l’occasione di giocarsi il tutto per tutto in un contesto di respiro internazionale.
Perché è questa la terza carta vincente che il NTFI ha dimostrato di possedere: l’internazionalità. Le 20 coproduzioni internazionali sono una prova della volontà di liberarsi, come ha detto Quaglia alla conferenza di chiusura, “dall’autarchia, retaggio dei festival nati nel secondo dopoguerra, lavorando per stringere rapporti sempre più stretti con istituzioni teatrali di tutto il mondo”. Quest’anno a Napoli erano presenti, per curiosare, scriverne, catturare spunti e mettere in piedi collaborazioni, operatori teatrali e giornalisti provenienti, tra gli altri paesi, da Singapore, Russia, Francia e Spagna. Un patrimonio di idee e scambi, oltre che produttivo e professionale, che deve essere valorizzato e che va fatto crescere.
Le basi, dunque, sono gettate. La speranza? Che il NTFI continui a lavorare, anno dopo anno, come una fabbrica di cultura permanente, eredità della città e dell’intero sistema teatrale, non solo italiano, ma internazionale.
Nelle prossime pagine leggerete una rassegna tematica su quanto si è visto al NTFI quest’anno. Dalle produzioni site-specific, studiate sulla topografia e sul carattere della città, fino ai luoghi, teatrali e non, scelti per le rappresentazioni e ai tempi di queste: dalle maratone-kolossal alle mini performance. Segue un approfondimento sull’internazionalità del Festival: come una rassegna giovane ha saputo in tre anni attrarre alcuni grandi nomi e dialogare da pari a pari con i grandi Festival europei.
Ma il Festival quest’anno ha provato anche a dare un segnale diverso con un cartellone di ben 37 spettacoli dedicato alle compagnie emergenti, l’E45 Napoli Fringe Festival. Partito come sperimentazione nel 2009, il Fringe ha occupato quest’anno molti luoghi della città, dal Teatro Bolivar all’Elicantropo, fino alla Chiesa della Pietrasanta e alla Galleria Toledo. “L’idea del Fringe è quella di mettere in moto una fucina di creatività, artisti indipendenti che si prendono lo spazio per mettersi in mostra ai margini (fringe, appunto) del programma principale, spesso con proposte anche più interessanti, più creative, più irregolari”, scrive Anna Bandettini su “La Repubblica”. Eccone un’analisi a conclusione della rassegna.
Nel Taccuino, non solo Napoli. Da quest’anno una stagione di danza, concerti e opere liriche anima la programmazione estiva delle diverse province campane sotto una comune etichetta, quella della Fondazione Campania dei Festival, e con la collaborazione di diversi enti culturali della regione.
A chiudere la monografia sul NTFI, Stratagemmi pubblica in esclusiva uno dei testi in cartellone. Si tratta de La città di fuori/La città di dentro, ispirata al romanzo La città perfetta di Angelo Petrella, pubblicato da Garzanti nel 2008 e adattato per la scena da Mario Gelardi (già artefice della versione teatrale di Gomorra) e Giuseppe Miale di Mauro, con la collaborazione dello stesso Petrella. Scrive Rodolfo Di Giammarco su “La Repubblica”: “L’idea è quella di proporre la violenta crescita e la conflittuale maturazione dei quasi coetanei Chimicone e Sanguetta in due distinti spettacoli, in una tre giorni che culmina con la maratona dei due lavori basati sulle figure di due meridionali a rischio”. Lo spettacolo è stato rappresentato al Real Orto Botanico: La città di fuori ha occupato l’esterno della serra Merola, La città di dentro si è sviluppata nel cortile del museo botanico, un edificio dalle fattezze di castello. Uno spettacolo esemplare e rappresentativo, dunque, di alcuni dei filoni tematici qui proposti: una peculiare partitura temporale, un palcoscenico del tutto inusuale e un soggetto pensato e plasmato sulla città ospitante. Napoli al centro.