Un sottoscala fumoso dà accesso a un caffé intimo dal parquet consunto e luci soffuse da bordello. Ballerine discinte, dalle occhiaie profonde e il rossetto sbavato, accolgono sperduti avventori.  Nella nebbia dei sigari, si aggirano anche un ragazzo dalle chiare pupille sottili, un maturo signore dall’ebbrezza stanca, un brioso pagliaccio, una madre dilaniata da qualche antico dolore, un travestito dalle labbra sigillate, stanco di sorprendere. Dai sofà sdruciti, negli angoli più bui del locale, si alza l’affanno di sospiri rubati. Come marionette dai fili allentati, le opache figure mimano felicità mancate, violenti ricordi d’infanzia, storie di normale disperazione. Amori momentanei sbocciano su desideri latenti di morte. La tromba jazz e il pianoforte lasciano scorrere le note, improvvisata colonna sonora per una notte appena all’inizio, da trascorrere sul bordo di un vulcano dove si improvvisa uno spettacolo d’acrobazie. Vita nuda e crepuscolare, a cui si chiede l’oblio del giorno trascorso. Sui tetti, però, sta in agguato un’ombra indefinita, forse un topo, ma potrebbe essere un’aquila, sfuggendo la luce di fari e lampioni, comparendo ad  istanti intermittenti, minacciosa e incombente, sullo schermo della fantasia spaventata. Nel cielo indifferente e senza luna brilleranno presto i bagliori dell’incendio del Parlamento tedesco; per strada si sentirà il fragore dei cristalli, vetrine infrante dei negozi ebrei; poi le case ed i muri diverranno macerie. Ma adesso  l’oste elargisce un altro giro: le bocche si aprono come per baci inesausti, vino doppio, birra grande e doppia; le parole si arrotondano di schiuma, gli occhi diventano vitrei. È una festa, si beve e si canta; bisogna bere perché qualcosa venga dimenticato. Qualcosa che accade oggi, o meglio è accaduto ieri, oppure sarà domani: qualcosa a Berlino.

Berlino è “un luogo eventuale”, come scrisse in pagine popolate da incubi Ingeborg Bachmann. Una città di fantasmi e di allucinazioni, dove la memoria inciampa di continuo nel panico della storia che, incessante, manda sussurri in ogni strada, in ogni pietra, in ogni lembo di cielo. Città di visionari: di cui in questa coraggiosa serata milanese rivive un equivoco caffé, un bordello di second’ordine, un cabaret per derelitti e senza star. Al Teatro della Contraddizione, tre ore di sogno inquietante, complesso e coinvolgente. Protagonista onirico un personaggio simbolo della repubblica di Weimar: il buffo, rotondetto Kurt Tucholsky, nato a Berlino nel 1890 da una famiglia di commercianti ebrei, morto suicida in esilio svedese nel 1935, molto più amato che letto, pochissimo conosciuto in traduzione italiana. Una personalità letteraria sfuggente alle definizioni: giornalista, scrittore, satirico, romanziere d’amore, poeta. Inesausto pacifista,  del nazismo comprese subito l’anima borghese, la forza psicologica, l’ineluttabile catastrofe. Un osservatore pungente ed un perfezionista dello stile: la sua macchina da scrivere, come un’orchestra, contenne tutti gli strumenti. Ma la musica soffocò tra le disarmonie del suo tempo. Le sue gridate proteste politiche contro la guerra, contro la pena di morte, contro l’imperatore, già ben prima del 1915, volevano sì cambiare il mondo, ma più con il sentimento e l’emozione che non con le tessere di partito e le ideologie. Ebbe lucida la consapevolezza del proprio fallimento: ‘ho successo, ma non influenza’, dichiarò nel 1924; non fu mai sfiorato dall’ottimismo brechtiano per il quale nessun mondo sarebbe stato peggiore dopo il nazismo. Soldato nella prima, non volle assistere alla seconda guerra mondiale. Nel 1932 scelse il silenzio e non scrisse più nulla, tranne lettere private: messaggi in una bottiglia affidate al mare della storia perché non proprio tutto andasse perso. I suoi libri furono bruciati nei roghi pubblici dai nazisti il 10 maggio del 1933. Eppure le sue opere (tra cui 2900 articoli di giornale) occupano ora ventidue  volumi. Deluso dal presente, Tucholsky si indirizzò però ai posteri di un’epoca futura, cioè a noi: per metterli in guardia dalle manipolazioni della ‘verità’, dall’influenza dei media, dalla distruzione del passato, dalla mercificazione dell’essere umano e del suo tempo, da ogni forma di oppressione e schiavitù, economica e sociale. Per metterli in guardia dalla bugia, oggi quanto mai attuale e diffusa, che la cultura sopravviva sempre alla barbarie.  Si rivolse a posteri da lui così lontani quando si divise definitivamente dal suo presente e dal suo popolo, perché “si può lottare per una maggioranza che  è oppressa da una minoranza tirannica; ma non si può predicare ad un popolo il contrario di quel che vuole la sua maggioranza” – scriveva nell’anno orribile 1933 all’amico drammaturgo Walter Hasenclever (anche lui suicida in esilio nel 1943).

 

 

Quanto questo fallimento possa essere significativo nel 2017 – quando, all’indomani delle elezioni francesi, la Le Pen ha comunque registrato il 33.9 per cento ossia il migliore risultato della storia del Front National – in un’Europa che Tucholsky definiva utopisticamente come la propria “casa”, è la questione impegnativa che il cabaret  intellettuale e politico, provocatorio e ben congegnato di Marco Maria Linzi (autore e regista) ha inteso porre a un pubblico un po’ disorientato ma partecipe, grazie anche alle impeccabili figure del suo archeologico Kabarett bordello e alla consequenzialità stringente delle musiche. La conclusione può essere questa: “se si legge Tucholsky oggi, nell’epoca delle sempre più irriconoscibili democrazie formali con le loro tendenze neoautoritarie in veste post-moderna, che non sono affatto meno pericolose di quelle che allora lo spinsero all’opposizione  sia con la macchina da scrivere che dalla tribuna, allora si trova nei suoi testi quello spirito all’erta, incorruttibile, militante, che sta inequivocabilmente dalla parte dei deboli e si scaglia contro la stupidità, la menzogna e la disonestà intellettuale”(Susanna Böhme-Kuby).

Sotera Fornaro


Café Berlin

Kabarett bordello

di Marco Maria Linzi
ispirato al fallimento di Kurt Tucholski
regia di Marco Maria Linzi
musica composta da Massimo Airoldi e Marco Maria Linzi
con Massimo Airoldi, Stefania Apuzzo, Micaela Brignone, Fabio Brusadin, Sabrina Faroldi, Stefano Slocovich, Stefano Tornese, Eugenio Vaccaro, Giacomo Valentini, Nazaré Xavier, Silvia Camellini, Silvia Romito, Jacopo Ferrari Trecate, Giorgia Zaffanelli
produzione Teatro dell’Elfo

Visto al Teatro della Contraddizione _ dal 18 aprile al 7 maggio 2017