Au bord inizia al buio: forse siamo nello studio di una scrittrice, ne sentiamo la voce lontana. Nell’alba di luci fredde e soffuse si staglia una sagoma sdraiata, sfocata dietro ai doppi e tripli filtri di veli leggeri. Uno di questi è teso, verticale, al centro del palco, un altro velo, più ampio, occupa il boccascena, ostacolando e riducendo la visione: due separazioni, parziale la prima, drastica la seconda, fra ciò che avviene sul palco e la platea. Di Monica Piseddu è la sagoma distesa, ma è sua anche la bocca che parla? La regia di Valentino Villa rende lecito e significativo il dubbio: la sala del teatro Foce non è grande, eppure la voce arriva allo spettatore come da lontano, è una voce che non trema, è stabile, salda. Come può provenire dalla stessa fragile sagoma rannicchiata sulla scena? Dietro ai veli, il corpo dell’attrice è sempre distante dallo spettatore, ma sempre in vista, collocabile nello spazio del teatro. La voce resta invece scorporata, alienata dal corpo, parla in un microfono che non si vede. Da quale luogo proviene? L’origine resta indefinita.
La scenografia (curata da Sander Loonen) è fissa, a eccezione di immagini e luci che mutano sullo sfondo bianco: una scena ricca e al tempo stesso essenziale, saturata di elementi non realistici che ne astraggono lo spazio, dai veli, alle luci, fino ai suoni perturbanti curati da Fred Defaye. Ciononostante, domina la parola e la visione si trasforma continuamente in ekphrasis. Le immagini passano a volte, appaiono e spariscono in baleni, come frammenti di memoria mai a fuoco: forse, allora, siamo nella testa della donna, nel suo inconscio, e tutto ciò che vediamo colpisce allo stomaco prima ancora che alla mente. Nel testo di Claudine Galea, vincitore del Grand Prix de littérature dramatique e qui tradotto da Valentina Fago, non vi è una vera e propria trama. Esso porta sul palco la fatica del dover districare i fili della realtà, di scegliere una “storia” ed eleggerla a verità dominante, senza lasciar posto a ogni eretica alternativa. Eppure, la storia alternativa irrompe da sé sulla scena, emerge dai pensieri della scrittrice.
Questi pensieri ruotano attorno a una fotografia nota dall’aprile 2004, una tra le numerose immagini che mostrano le torture americane dei prigionieri iracheni, nel carcere di Abu Ghraib: raffigura una soldata con al guinzaglio un prigioniero. Sul palco però non è rappresentato un fatto politico, né alcuna istanza documentaria, al contrario: c’è la voce sola, sempre lontana, che pronuncia il suo turbamento di giornalista e di scrittrice davanti a una storia solo apparentemente univoca. Ma non solo questo: essa sonda anche i territori dell’idolatrato politically correct e vi si spinge oltre, dichiarando a gran voce la sua scandalosa e impronunciabile attrazione per quella donna violenta. L’ekphrasis scava ciò che nella fotografia resta nascosto: storia della donna col guinzaglio, di sua madre, della figlia, dell’amante. Nella soldata è esplorata la doppiezza della donna, il suo essere e dare amore e violenza, come la madre: anche nell’essere madre c’è violenza, desiderio viscerale di tenere il figlio al guinzaglio, figlio servo delle sue brame, figlia sfogo delle sue vanità. Così, la voce rintraccia nella singola fotografia una storia universale, si fa interprete delle storie possibili.
È in scena non la Storia, ma l’impossibilità di raccontarla, di prendere una posizione che non sia au bord, paralizzata, al bivio delle interpretazioni possibili. Come raccontare e giudicare eventi storici con distacco? Anche la voce di Monica Piseddu (perché, nonostante tutto, è voce di Monica Piseddu), prima così salda, a tratti si incrina, trasforma il linguaggio in un elenco ritmato di dubbi e domande, si acuisce in toni innaturali, come innaturali sono le pose del corpo che si piega e assume strane angolature. Piseddu parla senza sosta dall’inizio alla fine, e la sua voce è come uno spartito, è musica classica, poi è rap, un allegro, un dies irae. Il suo ritmo si fonde con le apparizioni delle immagini, con le luci e con i suoni. Tutto ciò che arriva sulla scena non fa che raddoppiare, sdoppiare e ampliare la voce microfonata, che sembra provenire dall’aldilà. Guardiamo il corpo che si muove sul palco senza mai mostrare il volto, coperto dalla parrucca: mai si vede la bocca che parla, mai un muscolo dichiara che si sta emettendo suoni. C’è il corpo dell’attrice e la voce dell’attrice, e sono come due attori sul palco, due presenze che lavorano insieme ma che non coincidono mai. Il corpo è correlativo oggettivo della voce, mima le onde sonore, balla scomposto, meccanico; accusa fisicamente i pugni delle parole, ne presenta i lividi. La voce della coscienza guarda l’orrore e ne fa un’ekphrasis personale, cerca di leggere il mondo e si perde, e si interroga, e ci interroga, senza mai riuscire a prendere posizione, e più osserva la foto più è bloccata al bordo della storia e del corpo.
Tutto termina nel buio, come era iniziato. E il pubblico, sbigottito e turbato, sussurra un cauto applauso finale, indice che, forse, il compito del teatro è questa volta andato a buon fine. Non ci sono risposte da offrire: occorre continuare a interrogarsi.
Marta Pizzagalli
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico LACritica