di Marco Martinelli / Teatro delle Albe
ideazione di Marco Martinelli e Ermanna Montanari
Visto al Teatro Rasi – Ravenna Teatro_18 novembre-14 dicembre 2014
in replica all’Elfo Puccini di Milano_ 3-12 marzo 2015
I Nat birmani sono spiriti malvagi, “fantasmi assetati di vendetta”, esseri notturni che si nascondono nei tronchi degli alberi. Proprio come le Erinni del teatro greco – personificazione di forze interiori, ma dotate di un tangibile statuto di esistenza – i Nat tengono sveglia Aung San Suu Kyi fin da bambina con domande, dubbi e tormenti. Ed è così che il Teatro delle Albe rappresenta la figura simbolo della resistenza alla dittatura birmana, premio Nobel per la pace nel 1991: un eroe alle prese con i suoi demoni, come Oreste con le Erinni.
Sembra cioè – soprattutto se si mette in dialogo Vita agli arresti con il precedente Pantani – che Marco Martinelli stia cercando una via per raccontare il percorso di alcuni eroi contemporanei senza cedere all’agiografia, o all’epica celebrativa. E se la tormentata vicenda del ciclista romagnolo si prestava di per sé a una lettura contraddittoria e non univoca (la polemica mediatica che si è scatenata dopo la recente riapertura delle indagini lo dimostra), per un personaggio celebre e concordemente lodato come Aung San Suu Kyi il rischio era ben più concreto. Il teatro delle Albe lavora però sapientemente sulla commistione di generi, alternando il codice della tragedia a quello della commedia, mescolando drammatico e grottesco, conducendo lo spettatore da momenti di straniamento brechtiano ad altri di vertiginosa immedesimazione. Ed ecco che la straordinaria potenza – giocata tutta in sottrazione – di Ermanna Montanari viene affiancata dalle maschere caricaturali dei generali (i bravi Roberto Magnani e Massimiliano Rassu) o, per esempio, dall’allegria sopra le righe della patinata giornalista di Vanity Fair (Alice Protto). È dunque la polifonia di registri a stornare il pericolo dell’encomio, ma non solo: la drammaturgia di Marco Martinelli si accorda sulle note sobrie del linguaggio politico di Aung San Suu Kyi, costruito con grazia sull’evocazione di immagini e su una temperata ironia. L’ambito della retorica per eccellenza, quello dell’orazione politica, si trasforma così in un esercizio di efficace essenzialità.
Vita agli arresti si apre in modo non troppo diverso dal già citato Pantani: è affidato ad un coro omofono il compito del racconto e della memoria mentre, sullo sfondo, uno schermo scandisce la successione delle scene, dei numeri e dei nomi. Come in Pantani, la vicenda parte dal principio, dal nodo originario che è necessario indagare se si vuole comprendere l’iter delll’eroe. Se per il ciclista l’humus del talento era la selvatica terra di Romagna, per Suu la radice profonda dell’azione è il padre Aung San, politico assassinato poco più che trentenne, assenza che lascia un segno tangibile nel nome e nel destino della figlia. Dopo l’incipit, pensato in stretta relazione con il precedente spettacolo, Vita agli arresti vira però verso altre atmosfere. Le ipnotiche musiche originali di Luigi Ceccarelli ci portano verso l’Asia, la poca rilevanza della dimensione temporale e il clima di sospensione parlano di Oriente, le maschere dall’espressività sovraccarica, un po’ beffarda e un po’ minacciosa, fanno pensare a certo teatro vietnamita. La raffinata estetica del Teatro delle Albe si tiene lontana dalle rappresentazioni stereotipate da promozione turistica (e non è un caso che Marco Martinelli ed Ermanna Montanari abbiano cominciato i lavori sullo spettacolo proprio con un lungo viaggio in Myanmar), ma è forte la sensazione di trovarsi in un ‘altrove’.
Siamo, insomma, lontani da casa e da noi? Proprio su questo interrogativo si apre lo spettacolo (“È lontana la Birmania?”) e, ascoltandolo, vengono in mente certe riflessioni di Edoardo Sanguineti: “i classici ci interessano perché sono da noi radicalmente diversi. Sono radicalmente esotici, oserei dire, temporalmente come spazialmente (…). Importano perché additano forme di esperienza da noi remote, anche impraticabili, e anche, non di rado, incomprensibili, ma che, appunto per questo, ci aprono a dimensioni diverse, altrimenti ignote e insospettabili”.
Per scoprire che quella Birmania parla anche di noi, che la resistenza politica di Aung San Suu Kyi ha qualcosa da insegnarci, che le vicende eroiche sono sempre e soprattutto vicende umane occorre allontanarsi, tenere le distanze. Scopriremo allora che Vita agli arresti ci presenta un’esperienza esotica e, proprio per questo, straordinariamente vicina.
Maddalena Giovannelli