Negli anni Gli Omini hanno incontrato, per il loro progetto Memorie del Tempo Presente, molte persone in luoghi diversi e lontani di tutta Italia. Ora raccolgono le storie scartate in TrucioliAl nostro arrivo al Lavoratorio, Luca e Giulia Zacchini ci stanno aspettando, pronti per l’intervista. Francesco Rotelli ancora non c’è, ma arriverà poco dopo. L’intervista si svolge all’aria aperta: i due non esitano nel tirare fuori una busta di tabacco e nel girarsi una sigaretta, prima di iniziare.

Quando nasce Trucioli

Lo spettacolo in sé nasce l’anno scorso, ma l’idea è maturata durante il Covid, quando tutti noi eravamo isolati. Abbiamo cominciato a ri-utilizzare tutto il materiale raccolto nei quindici anni di vita della compagnia. In Trucioli ripartiamo anche da indagini territoriali di cinque anni fa. Il nostro lavoro consiste nell’andarcene in giro per tutta l’Italia chiedendo alle persone se sia possibile fare due chiacchiere con loro. Negli anni siamo passati dal Trentino alla Puglia, toccando circa un centinaio di paesi e raccogliendo un archivio di testimonianze molto vasto. Con ogni interlocutore succede qualcosa di molto diverso: a volte chiacchiere intime, altre volte scambi di circostanza. Ogni volta trascorriamo dieci giorni nel posto e, alla fine, mettiamo in scena il lavoro una sola volta davanti agli abitanti del luogo. 

Perché proprio dieci giorni?

Ci siamo dati un tempo breve per dare uno sguardo che resti di superfici e che provenga dalla prospettiva di un piccolo gruppo di  “sconosciuti”. Senza farlo apposta, il rimanere pochissimo tempo si è rivelata una scelta ottimale per far sì che le persone si sfoghino senza nessun freno, sapendo che di lì a poco andremo via e non torneremo. Il poco tempo ci ha regalato le qualità dell’ascoltatore perfetto per le questioni più intime.

Il titolo Trucioli da dove ha origine? 

Sui nostri titoli facciamo sempre lunghe riflessioni prima di arrivare a una conclusione. Trucioli è una commistione di tante cose. Da tanti anni lavoriamo alla Segheria (lo spazio culturale gestito dagli Omini alla periferia di Pistoia, ndr) a contatto con alcuni falegnami, e abbiamo quindi a che fare quotidianamente col legno. Come i trucioli del legno, tutto il materiale che usiamo in questo lavoro è uno scarto di altri tipi di lavorazione, frammenti di altri spettacoli e del nostro archivio che ora vengono riuniti. Infine, anche le persone che andiamo a incontrare sono marginali: da qui deriva la metafora del truciolo, dello scarto.

foto: ufficio stampa

A questo proposito, voi metterete in scena Trucioli in un posto che era in un luogo di lavorazione manuale, la pelle, esattamente come è manuale la lavorazione del legno.

Il Lavoratorio aggiunge molto valore al nostro spettacolo, specialmente per il fatto che ha una dimensione perfetta per Trucioli. Però a noi piace anche fare spettacoli “site specific”, quindi pensati per un preciso luogo; negli anni abbiamo recitato anche sui treni! Trucioli, invece, starebbe bene ovunque, anche dentro un circolo, gli basta veramente poco.

Che rapporto individuate tra la vostra ricerca e il teatro “di tradizione”?

Rispetto al teatro di tradizione una rottura c’è, specialmente dal punto di vista del linguaggio. Ci siamo interrogati su cosa avesse senso per noi e sul senso del teatro in generale: volevamo qualcosa che potesse parlare con le persone, sia durante le fasi di ricerca sia al momento di andare in scena. Volevamo che avvenisse uno scambio reciproco: il progetto degli Omini, con Memorie del Tempo Presente, è la risposta alle domande che ci siamo fatti nel tempo. Ovviamente poi il progetto è in continua evoluzione: Giulia, per esempio, si è unita a noi dopo cinque anni.

Vi citiamo: in Trucioli affermate che «siamo tutti soli». Questo tipo di teatro antropologico serve a sentirvi o a far sentire gli altri meno soli? 

C’è una ricerca continua della comunità in tutti i lavori che facciamo, specialmente quelli di indagine. Bisogna misurarsi continuamente con questo concetto, che tra l’altro è in continuo mutamento: spesso la nostra società ci viene raccontata come fosse in disgregazione. La solitudine è una questione allargata: via via che parlavamo con le persone abbiamo capito che è uno dei sentimenti più imperanti in tutti noi. Nei fatti, peraltro, è spesso più facile avvicinare le persone sole.

È a questo punto che arriva Francesco Rotelli, un po’ sorpreso di trovarci furori. Giulia lo accoglie con questa frase: «Francesco, si parlava di solitudine, capiti preciso». Lui ci fa subito sapere che la solitudine è un po’ il fil rouge dei loro lavori; non esita a sedersi e ad aggiungersi alla conversazione, preparandosi una sigaretta:

La frase che avete citato è anche un inno alla diversità di tutti noi e all’unione delle diversità. La comunità è la base di tutto, nel teatro. E poi Gli Omini è un nome plurale che non prevede la solitudine, è un antidoto: ci serve anche per misurare la temperatura dei tempi che stiamo vivendo, per non concentrarci solo su noi stessi. Nello spettacolo le solitudini cominciano a parlarsi, quando nella realtà ciascuna di esse avrebbe fatto solo un monologo. Quello che ci succede spesso alla fine dei progetti d’indagine è che poi sono proprio i cittadini di quel posto che ci dicono «avete scoperto degli aspetti della nostra comunità che mi giungono nuovi».

foto: Stefano Di Cecio

E quindi, in base a cosa scegliete i posti in cui andare?

Magari si potessero scegliere! Dipende soprattutto da chi ci chiama. Se è una città, lavoriamo in un singolo quartiere, o comunque nei posti di ritrovo di una comunità, dove è in qualche modo rintracciabile l’identità del luogo. Solo più di recente ci è capitato di poter scegliere: per noi è preferibile andare in posti che non conosciamo e, per esempio, ci piacerebbe molto andare nelle isole.

E quando parlate di “vite minuscole” cosa intendete? Il diminutivo si ritrova anche in Omini. E nei vostri spettacoli partite sempre dal piccolo, da una minoranza, che però sa colpirvi.

Esatto, noi siamo sempre partiti dal piccolo, da qualcosa di marginale, che poi si rispecchia in qualcosa di più grande. Non andiamo mai a cercare la massa. Queste piccole vite dimenticate e dimenticabili sono quelle che poi riempiono le strade. Siamo tutti “omini” in questo senso. È difficile trovare nei nostri spettacoli persone di successo, con un progetto, che hanno cambiato la loro vita. Spesso, anzi, ci sono le fragilità, le debolezze, le meschinità; ci sono personaggi che non sono per niente positivi, perché l’obiettivo è dare uno sguardo eterogeneo sulla realtà. Il nostro è un tentativo di spronare la nostra curiosità e quella delle persone che vengono agli spettacoli. In questo periodo particolarmente difficile per chi è solo e non ha motivazione, queste persone rischierebbero di rimanere in un dimenticatoio.

Come costruite le vostre interviste?

Il nostro è un approccio antropologico quindi non abbiamo delle domande canoniche da fare anche se qualche linea, ormai costruita negli anni, la abbiamo. Non ci mettiamo mai in contrapposizione con le e gli intervistati proprio perché vogliamo rimanere “neutri”, ma nella resa dello spettacolo, ovviamente, diamo un nostro sguardo sul mondo: la scena è il luogo per restituire il nostro punto di vista.

Vi prendete anche una grossa responsabilità, portando in teatro testimonianze di persone reali. Come gestite un’eventuale sensazione di tradimento, di fiducia mal riposta? 

Cerchiamo sempre di muoverci con tatto sulla scena: non vogliamo sbeffeggiare nessuno. Bisogna anche considerare che i posti in cui siamo andati sono piccoli, dove le persone si conoscono tutte: a volte il rischio di sollevare un polverone può essere alto. Una cosa che facciamo sempre è mantenere l’anonimato degli intervistati.

Cos’è cambiato oggi, rispetto all’inizio del vostro percorso?

Allora eravamo sicuramente più sfrontati. Solo più tardi ci siamo accorti di quanto il nostro lavoro avesse importanza a livello antropologico. Inoltre, l’arrivo di Giulia ha avuto una grande importanza: adesso, grazie a lei, il materiale raccolto viene filtrato con un’altra cura. All’inizio, poi, eravamo ogni volta emotivamente provati, ora sappiamo gestire meglio le nostre emozioni. Ci siamo trovati davanti delle verità e delle storie di tristezza disumana. Molte volte coi nostri spettacoli cerchiamo di far ridere ma le risate che vengono fuori sono amare. Negli anni abbiamo provato a costruirci una “scorza” che ci dia un minimo di distacco. Al tempo stesso, però, cerchiamo sempre di ascoltare: una capacità tipica dell’essere umano ma che sembra essere stata dimenticata. Ascoltare ha a che fare col senso profondo del nostro lavoro: il nostro progetto è nato facendoci domande sul senso del teatro e poi col tempo le domande sono diventate altre. Siamo diventati antropologi senza volerlo.

a cura di Caterina Baronti e Maria Vittoria Braschi


foto di copertina: ufficio stampa

Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico Officina Critica