ORTIKA + iPesci/ LA FORESTA
Cerbero teatro / Oblio
Fratelli Carchidi / AMANDA
ADA / TWITTERING MACHINE

Una macro-intervista sul teatro di oggi, su come le giovani compagnie trovano spazio in una società liquida e iper-connessa, sollecitata da una continua condizione di emergenza, in cui è sempre più complesso far sentire la propria voce.


Come può emergere la voce di un artista under 35 dal brusio del contemporaneo?

Non lo so. E alla soglia dei 35 anni francamente mi interessa sempre meno. Almeno sono arrivata a pensare che non sia questo il fuoco che deve guidare il nostro lavoro. La prospettiva sarebbe quella di una rincorsa verso una competizione sterile che ormai ben conosco: dobbiamo riconoscere che non esiste un vero mercato del lavoro nel nostro ambito, quello teatrale di ricerca e della drammaturgia contemporanea in particolare, ma solo frustrazione e compressione. Cercando di ribaltare questa dinamica abbiamo deciso di unire le competenze e dar vita a questa avventura insieme: due compagnie con le loro poetiche e modalità di lavoro, ORTIKA e iPesci. Quello che possiamo fare e che continuiamo a fare con determinazione e curiosità antropologica è una ricerca che davvero intercetti la luce altrui, con la presunzione di articolare niente meno che una riflessione sull’umanità, una rappresentazione dentro cui lo spettatore possa non solo riconoscere se stesso ma anche e soprattutto i suoi legami con gli altri, una continuità di natura fragile. (Alice Conti, ORTIKA)

Rimanendo fedele alle proprie radici e al raggiungimento della meta prefissata. Non cambiando la propria linea rispetto alle mode e alle richieste del mercato. (Mario De Masi, iPesci)

Credo che un modo per fare emergere la nostra voce sia quello di offrire un punto di vista altro. La nostra generazione è quella che fa da ponte fra la vecchia e la nuova, quella dei nativi digitali. Il nostro sguardo sul mondo, sul presente, si pone a metà fra gli sguardi di due generazioni lontane tra loro. Come si traduce tutto questo sulla scena? Non lo so, ma forse andando a indagare lì, in quello spazio vuoto tra linguaggi troppo “vecchi” per interessare le nuove generazioni e modalità troppo “giovani” per interessare le vecchie, forse stando lì c’è possibilità di emergere. (Alessandro Balestrieri)

Con la volontà, con la determinazione, con il coraggio, con la forza di osare, con la pazienza, la dedizione, senza urlare per affermarsi, facendo rete, condividendo le pratiche studiate, continuando a studiare sempre anche dopo essere “emersi”. Emergere non deve essere una conditio sine qua non, non può e non deve esserci un metodo per poter “arrivare, giungere in cima”; per emergere bisogna che alcune doti siano innate e bisogna saperle riconoscere in se stessi, dopodiché iniziare un percorso in salita che permetterà di capire quanta voglia si ha, quanto fiato si ha per raggiungere i propri obiettivi. Emergere nel momento in cui si ha davvero qualcosa da dire, una storia da raccontare, altrimenti rimanere in apnea, a studiare, a cercare di capire come non affogare, come non lasciarsi trascinare dalle correnti sbagliate, dalle voci sbagliate. (Antonella Carchidi)

Ho da poco superato i 35 e tento ancora di emergere dal brusio, credo che questa ricerca mi accompagnerà sempre. Penso che sia nell’indole di ogni artista il continuo tentativo di emersione, non mi riferisco tanto alla voglia di popolarità e successo, ma a un moto creativo che può accomunare tutti gli artisti. È un po’ come nuotare a delfino, per andare su bisogna obbligatoriamente andare giù e viceversa. (Pasquale Passaretti)

Il contemporaneo è il mondo del molteplice, è un mondo che non riusciamo a memorizzare bene. Personalmente cerco di mantenere una relazione dialogica con il passato e m’interrogo sul rapporto tra memoria e nuove tecnologie. Più che emergere preferisco immaginarmi in un percorso che sappia “tagliare” il brusio. (Loredana Antonelli


Quanto è difficile raccontare la “realtà liquida” che ci circonda? Come si fa in teatro?

Si può raccontare la realtà liquida che ci circonda riuscendo a concentrala, a solidificarla attraverso la sintesi della scena. Questo diventa complesso perché i riferimenti e gli input che l’epoca contemporanea dà sono una miriade. L’attore deve avere la forza di scegliere e condensare pochi aspetti che servono al personaggio che porta in scena. Pochi aspetti vanno analizzati per riuscire a dare forza alla narrazione e, in un tempo bombardato da informazioni, saper scegliere diventa un’impresa. (Mario De Masi, iPesci)

In ORTIKA lavoriamo su riscritture di testi dalla realtà. Accumuliamo i materiali di approfondimento dalle fonti più disparate su un argomento che ci ossessiona. Ad un certo punto della ricerca sentiamo che le parole originali sono più precise, specifiche, e intercettiamo dei “copioni dalla realtà”. In questo caso il processo creativo è partito da una serie di suggestioni biografiche e documentarie, oltre che dal desiderio di incrociare le poetiche e le pratiche di due compagnie, e si è definito attraverso un denso artigianato quotidiano di scrittura di scena che forma e de-forma il testo. La nostra pratica è liquida, viva, cerca di cogliere al meglio la complessità del contemporaneo mescolando corpo, voce, partiture ritmiche e visioni dei performer. (Alice Conti, ORTIKA)

Non è difficile il racconto in sé, anzi. Semioticamente basta molto poco per ricreare quell’ immaginario e far subito capire che mondo stiamo raccontando. È come avere, in un certo senso, un compito facilitato. La difficoltà di questa narrazione sta nello stare al passo. Basta un mese e, per dirla di nuovo con Bauman, tutto è già “obsoleto” e quegli stessi simboli che ci avevano avvantaggiato, vanno aggiornati.
La complessità sta nel proporre l’alternativa. Ma qui si cade in un paradosso, perché la società liquida è proprio il vuoto di certezze, di valori dati. E quindi tutto diventa un po’ piccolo, perché l’alternativa è il punto di vista di un singolo e non un ideale, non dico da raggiungere, ma quantomeno da provare a sognare. Questo penso debba farlo il teatro, ma è difficile perché siamo figli del nostro tempo. E rimaniamo inglobati nella “liquidità”, senza uscirne. Per cui, per raccontare la realtà liquida in teatro, occorre farlo da un punto di vista che non sia “liquido”! (Benedetta Dimaggio)

Nella ricerca che stiamo conducendo per la nostra opera prima, è emerso come questa marea di stimoli psichici che invadono il cervello disturbino alcune tra le più semplici attività quotidiane e questo ci rende estremamente distratti. In teatro questa condizione si può raccontare attraverso un processo di lavoro che mira alla creazione di un linguaggio che contenga archetipi che universalizzino i concetti sottesi all’opera. I personaggi che escono fuori da queste riflessioni sono inconsapevoli di questa condizione che abitano, ma la parlano e la agiscono, manifestandosi sulla scena. Nel caso di Amanda. Colei che deve essere amata prendiamo a pretesto un disturbo molto comune (l’acufene) per renderlo metafora proprio di quella incomunicabilità che la globalizzazione ha reso possibile nel nome dell’individualismo e del “progresso”. Questa incomunicabilità si traduce nella difficoltà sempre maggiore a farsi due, a provare amore, ma anche solo empatia per l’altro. L’amore liquido è fugace, non approfondisce, non contempla il sacrificio e così diventa semplicemente uno dei tanti oggetti di desiderio consumistico, un contenuto usa e getta che soddisfa le nostre pulsioni; ciò favorisce in toto l’avvento dell’amor proprio e quindi del narcisismo dilagante che coinvolge la nostra epoca. (Francesco Carchidi)

Il teatro possiede gli strumenti per congelare per qualche attimo questa liquidità restituendo allo spettatore e all’artista il tempo per una riflessione necessaria. Ovviamente non solo il teatro ha questa capacità, ma gli riconosco una sorta di potere ancestrale che ci riporta intorno a un fuoco fatto di attenzione ed empatia. (Pasquale Passaretti)

Il racconto ha bisogno di memoria, ma non è necessaria una narrazione lineare. Narrazione disarticolata e multimedialità sono elementi ricorrenti nei miei progetti. Le immagini che realizzo sono principalmente astratte. A teatro tento di creare un paesaggio visivo in cui far vivere l’attore, che sia a sua volta un racconto e non un’appendice. (Loredana Antonelli)


Perché oggi il regista sembra un animale in via d’estinzione? Cosa lo aspetta secondo voi?

Una lenta fine e un amaro destino, se rimane un intellettuale che vuole applicare le proprie idee su dei corpi che non conosce e che non vive. Il regista dovrebbe condividere il proprio mondo con gli attori. Dovrebbe essere l’attore invisibile che condivide meraviglie e disgrazie con i fratelli che salgono in scena a prendersi il rischio di camminare nel vuoto. (Mario De Masi, iPesci)

Il suo destino dipende tutto dalle pratiche che mette in atto. Nel nostro caso l’autorialità del lavoro è trasversale e condivisa con i performer e dunque il regista che riconosco è un occhio esterno che restituisce uno sguardo visionario su un processo intimo, di cui è il primo spettatore. Una guida per inoltrarsi nell’ignoto, che renda chi sta in scena in quel momento a creare (su carta e sulla scena) protetto e audace. (Alice Conti, ORTIKA)

Non mi sembra che il regista sia un animale in via d’estinzione, purtroppo. (Fiorenzo Madonna, iPesci)

Credo che quando si parli di estinzioni ci si riferisca alla figura del regista “puro”. Penso che nel teatro off di oggi sia alquanto impossibile o comunque molto difficile potersi permettere di ricoprire un solo ruolo. Bisogna sporcarsi le mani, uscire dal recinto del ruolo e mettere in campo le proprie competenze per tutto ciò che serve. Si fa di necessità virtù. Poter girare con uno spettacolo in Italia, grandi produzioni a parte, presuppone un numero limitato di partecipanti. Inizialmente vedevo solo i limiti e l’aspetto negativo di questa condizione. Ma oggi posso dire di aver sperimentato sulla mia pelle i vantaggi e i lati positivi di questo crollo dei ruoli: non sarebbe nato PERLEi (il mio precedente spettacolo), non ci sarebbe OBLIO, se mi fossi arroccata sul mio semplice ruolo di attrice. Da una parte il regista che è anche autore e interprete è più indipendente e ha più libertà di espressione. I lavori che vengono fuori da questo tipo di approccio sono profondi, personali, creature nate con tanta fatica ma anche tanta passione, perché la frase “ma chi me l’ha fatto fare” è sempre lì che ti aspetta dietro l’angolo. D’altro canto diventano ancora più fondamentali il supporto e la fiducia dei componenti del gruppo, all’interno del quale scompaiono le gerarchie, perché si diventa tutti fondamentali. Non so dire se sia meglio o sia peggio rispetto al passato e come si evolverà in futuro, io la vivo come una evoluzione positiva e naturale della figura, comunque storicamente giovane, del regista e so che questa è la strada che sto percorrendo nel mondo del teatro contemporaneo. (Cristel Checca)

Provo a rispondere a questa domanda partendo dalla mia personale esperienza: ho 26 anni e nella vita aspiro a diventare un regista. Mentre faccio questa considerazione, mi guardo intorno e mi accorgo che raramente un ragazzo a cui piace il teatro decide di intraprendere da subito questa strada; la regia, almeno nel nostro Paese, viene vista come una continuazione o completamento del percorso attoriale, quando in realtà i compiti che spettano ad un regista sono molto differenti rispetto a quelli che spettano ad un attore. Questa convinzione generalizzata è indubbiamente la risultante di una crisi esistente nel settore che spinge le compagnie ad avere organici sempre più ristretti per rientrare nelle spese di una produzione teatrale. Sicuramente è quindi in atto una metamorfosi del ruolo del regista che più che all’estinzione potrebbe portare alla riconversione di alcuni compiti che gli spettano. Per fortuna esistono ancora registi teatrali in grado di dare un taglio originale e riconoscibile alle proprie opere, in grado di inventare processi drammaturgici di invidiabile fattura, di approfondire l’arte scenica in maniera così dettagliata da lasciarci a bocca aperta quando assistiamo ad un loro spettacolo; come giovane compagnia ci auguriamo che questo tipo di registi non si estinguano mai. A mio avviso, tenere conto del bagaglio emotivo di un attore e saperlo incanalare nel modo giusto è la prima regola a cui deve attenersi un bravo regista. (Francesco Carchidi)

Non credo che la figura del regista sia in pericolo. Forse ha vacillato qualche anno fa quando nel teatro contemporaneo hanno iniziato ad affermarsi diverse compagnie che adottavano una regia collettiva. Tuttavia credo che al momento il teatro di regia sia il più diffuso. Nell’ingranaggio teatrale la “bestia rara” non è il regista, ma il drammaturgo, sostituito e spesso confuso con l’autore. Il drammaturgo non è più una presenza fissa durante la gestazione dello spettacolo e difficilmente il suo lavoro di riscrittura e adattamento del testo si protrae oltre il debutto. (Pasquale Passaretti)


Che rapporto c’è fra il vostro linguaggio teatrale e quello dei media?

Un rapporto di felice antitesi e cordiale antipatia. Abbiamo ancora il privilegio di praticare un’arte che si basa su principi di immediatezza e contatto diretto, trascendendo il piano meramente informativo. Il linguaggio dei media non ha nulla a che vedere con il nostro se non per il fatto che utilizziamo i social media per la promozione delle nostre attività e per manifestare il fatto che esistiamo. Ma noi vogliamo trasporre la realtà da un punto di vista personale, trasformare le persone, la realtà e noi stessi con un atto creativo condiviso con il pubblico. Pratichiamo un rapporto con la realtà non imitativo o illustrativo, né banalmente didascalico, ma trasformativo, rivoluzionario. Crediamo nella possibilità che il teatro, in quanto strumento di visione e di riscrittura della realtà, sia una minuscola forma di rivoluzione. Il media ha a che fare con l’attualità e il nostro linguaggio è completamente inattuale, se pur radicato in un presente da cui non si esce, la nostra ricerca impone uno sguardo all’interno e all’indietro, un percorso alla scoperta degli archetipi umani. Per di più questo linguaggio è antiproduttivo, se efficace ti mette in crisi, ti smuove, ti fa pensare. L’attore che va in scena è fuori dal mondo perché è l’unico “personaggio” della società che lavora con tutto se stesso, fuori è tutto frammentazione. Gli attori che vanno in scena sono dei “media” particolari: risuscitano morti, evocano fantasmi. Ci facciamo attraversare dalla realtà e vi riportiamo in faccia i mostri. E ci divertiamo anche. (Alice Conti, ORTIKA e Fiorenzo Madonna, I Pesci)

Noi siamo la generazione anni ’90 cresciuta a pane e tv, con gli slogan pubblicitari come mezzo di comprensione di massa. Ogni nostra scelta artistica è influenzata da questo immaginario, inevitabilmente. Cartoni animati, spot televisivi, giochi a premi, talk show restano indelebili nella nostra memoria inconscia. OBLIO ancor più dei lavori precedenti, usa a 360° il mondo dei media. Li sfrutta, li deride, li indaga, li rifiuta e se ne appropria traendone ispirazione. Il tema stesso dello spettacolo, lo slut-shaming, è uno dei sintomi malati del mondo di internet e dei nuovi media. Un fenomeno che esiste da sempre nella storia, ma che con il mondo virtuale si è trasformato in una gogna mediatica di dimensioni sconfinate che non lascia scampo a nessuno. (Cristel Checca)

La presenza dell’elemento video, l’interattività tramite l’uso dello smartphone, la struttura da quiz show con tanto di presentatrice, sono tutte scelte dovute alla nostra urgenza di commistione con il mondo dei mass media e di internet. Lo scopo è quello di fondere la nostra narrazione con l’oggetto della sua indagine, così da poterlo osservare dall’interno, utilizzando il suo stesso linguaggio per metterne in mostra criticità e contraddizioni. (Paolo Scarpelli)

Il linguaggio dei media è un linguaggio veloce, che costringe anche noi a stare al passo. Il presupposto principale per il successo di notizie (talvolta inutili) che intasano i media è la vendibilità di prodotti o contenuti. Anche l’arte viene coinvolta in questo circolo vizioso e credo che il compito dell’artista e del teatrante sia opporsi a questa logica industriale dell’intrattenimento. Si parte sconfitti in partenza, perché il linguaggio dei media è così disarticolato che influenza i processi base della psiche del consumatore: il compito dell’artista è prendere questo linguaggio disarticolato e trasformarlo in qualcosa d’altro, in un messaggio; i nostri interlocutori non devono e non possono essere consumatori bensì persone. L’obiettivo del nostro linguaggio teatrale è cercare di rendere significante ogni parola e gesto scenico per arrivare alla sensibilità di ogni persona seduta in platea. Quando il linguaggio teatrale risponde a un processo di lavoro che mira a sottolineare i paradossi dell’epoca in cui viviamo, ecco che raccontiamo il linguaggio dei media. Il linguaggio dei media parla attraverso di noi anche se decidiamo di non volerlo raccontare, perché è lo spirito della nostra epoca che parla al nostro posto. (Francesco Carchidi)

In Twittering Machine siamo partiti dallo studio di un quadro di Paul Klee del 1922, Die Zwitscher-Maschine, in italiano “La Macchina cinguettante”. Da qui abbiamo iniziato una ricerca basata sull’equilibrio tra visual, elettronica e racconto: la storia di un impiegato schiacciato dal proprio lavoro. Nello spettacolo i visual e la musica sono dal vivo, così come l’azione attoriale: l’idea è quella di costruire una sorta di concerto, durante il quale anziché cantare si recita. In questo lavoro cerchiamo in tutti i modi di evitare che la musica e il visual siano didascalici. Non sentiamo il bisogno di chiarire quel che racconta il performer, ma cerchiamo di dare tridimensionalità alla “bidimensionalità” del personaggio, incasellato in un mondo piatto come una figura in un affresco bizantino. È un mondo bidimensionale in cui l’attore non conosce il piacere di un movimento naturale e fluido. Il suo paesaggio interiore si manifesta attraverso l’audio e il video: lì c’è tutto quello che sfugge al cinismo delle sue parole e delle sue azioni in scena. Lì c’è il suo potenziale inespresso. (collettivo ADA: Loredana Antonelli, Lady Maru, Pasquale Passaretti)


Quanto e come ha influito l’epidemia Covid-19 sul vostro lavoro?

Assorbire l’impatto dello shock per la situazione distopica e lo stop delle attività è stato il primo passo. Seppur a distanza, ci siamo impegnati a non disperdere il lavoro fatto. Le nostre prove dal vivo e alcune date sono saltate, ci siamo riorganizzati. Via zoom abbiamo anche fatto una selezione per un Premio teatrale (Strabismi) in collegamento tra Milano, Napoli, Avellino e vari luoghi dell’Umbria, e siamo passati in finale. In questi giorni, finalmente dal vivo, presenteremo lo studio davanti al pubblico. Il lavoro è stato in più occasioni un appiglio nei mesi più duri del lockdown, vedersi da remoto era alienante, ma era l’unico modo per fare le prove. L’assenza di una pratica quotidiana dal vivo, l’assenza dei corpi, nostri e dei nostri compagni, si è manifestata ogni giorno. Forte è stata l’incertezza che grava ancora oggi sulla nostra progettualità. Ora dobbiamo immaginare nuove azioni “distanziate” in scena e questo ci fa scoprire cose nuove dei nostri personaggi e di noi. (Alice Conti di ORTIKA, Mario De Masi, Fiorenzo Madonna de I Pesci)

Indirettamente moltissimo. Ognuno di noi ha perso in questo periodo, da vicino o da lontano la sofferenza ha colpito tutti e tutto quello che è successo ha influenzato molto delle nostre vite. Il settore dell’arte e dello spettacolo poi, per quanto non abbia paragoni in fatto di resistenza, ha senza dubbio sentito in maniera incisiva quanto avvenuto finora. Riguardo al nostro lavoro teatrale, l’epidemia Covid-19 non ci ha permesso di debuttare, di continuare con il lavoro di ricerca per tanti mesi come avevamo programmato e di poter sviluppare i nodi drammaturgici che questo lavoro consente di portare avanti. Ha esaurito le nostre finanze e purtroppo ci ha obbligati a cambiare cast. Come molti del nostro settore, le battaglie continuano giorno per giorno, con ogni imprevisto del caso, per mettere alla prova le nostre forze. Ma noi non siamo disposti a mollare, non è quello che ci insegna il teatro e neanche quello per cui contribuiamo a lottare. È anche questo che vorremmo portare al pubblico continuando il nostro lavoro per presentare OBLIO. (Cerbero Teatro)

Dal punto di vista organizzativo questo periodo di sospensione ha rallentato il naturale processo di maturazione dell’opera, in particolar modo l’impossibilità di poter incontrare un pubblico e di poter programmare in tranquillità il futuro; dal punto di vista drammaturgico non è cambiato molto perché l’idea dello spettacolo è nata in un periodo antecedente all’arrivo del virus. In Amanda. Colei che deve essere amata, però, si parla spesso di un confinamento che può ricordare la condizione che abbiamo vissuto durante il lockdown. In scena è presente un cerchio dal diametro di un metro e mezzo che abbiamo rinominato “il cerchio di solitudine”, a posteriori questa scelta sembra essersi rivelata in linea con ciò che ci sta accadendo. (Francesco Carchidi)

Twittering Machine è una rielaborazione in chiave teatrale del quadro di Paul Klee, Die Zwitscher-Maschine. Il quadro ritrae quattro uccelli stilizzati incatenati a una manovella che li obbliga a “cinguettare”. Sotto questo stonato carillon c’è una voragine rosa che minaccia la fine di coloro che non rispettano il gioco. Da qui nasce un racconto, goffo e sbilenco, di una giornata tipo di un impiegato. Un racconto che a seguito della pandemia di Covid-19 sembra cambiato, oggi il lavoro è diventato smart, molti lavorano da casa, altri non hanno mai lasciato il posto di lavoro. In ogni caso quello che persiste è l’esercizio di potere che induce alla perdita d’empatia con l’altro. (Collettivo ADA – Loredana Antonelli, Lady Maru, Pasquale Passaretti)

Intervista a cura di Riccardo Corcione