È ancora tempo di miracoli: di interruzioni dell’ordinario, di fratture imposte al naturale e al normale. È ancora – o piuttosto lo è sempre stato – un tempo dove agli uomini, non agli dei e nemmeno agli eroi, è concesso spezzare «l’inesorabile corso automatico della vita quotidiana», e preservare il mondo dalla rovina attraverso due poteri laici, forze sottratte a qualsivoglia teologia. Nella riflessione che di esse offrì Hannah Arendt in Vita Activa, il perdono e la promessa appaiono come rimedi contro l’irreversibilità e l’imprevedibilità, panacee in grado ora di disfare ciò che si è fatto – il perdono, che «distrugge i gesti del passato, i cui “peccati” pendono come la spada di Damocle sul capo di ogni nuova generazione» – ora di rendere disponibile un futuro ignoto: la promessa, capace di gettare «nell’oceano dell’incertezza (…) isole di sicurezza senza le quali nemmeno la continuità, per non parlare di una durata di qualsiasi genere, sarebbe possibile nelle relazioni». Grazie a questi strumenti, anche a noi mortali è data la possibilità di compiere prodigi e magie, plasmare il corso degli eventi, finanche salvarci – una volta, ancora – dallo sterminio di un biblico diluvio.
When the Rain Stops Falling – geometrico testo di Andrew Bovell pubblicato da Luca Sossella Editore ed ERT Fondazione nella traduzione di Margherita Mauro – ruota proprio intorno alle facoltà del perdono e della promessa, dalle quali si dipana una saga familiare lunga ottant’anni: un grande romanzo di colpe taciute, di tentativi di redenzione e di condanne, geograficamente dilatato tra l’Australia delle grandi città e dello sterminato outback, e una Londra grigia e sulfurea. E Lisa Ferlazzo Natoli, nel primo allestimento italiano di questo piccolo capolavoro della drammaturgia contemporanea – coprodotto da ERT Fondazione, Teatro di Roma e Fondazione Teatro Due e insignito di tre premi UBU – riverbera, con una pregevole parsimonia di soluzioni, l’ampiezza di sguardo di Bovell, mettendosi al servizio delle parole e rifuggendo da qualsiasi protagonismo registico. Proprio grazie alla prospettiva della regista romana, ermeneutica e mai muscolarmente autoriale, When the Rain Stops Falling si rivela prima di tutto come uno struggente apologo sulla capacità di amare, sulla possibilità che all’amore – con il suo, direbbe Arendt, «incanto» – sia concesso perdonare, promettere, modificare il corso del tempo.
Nelle vicende delle famiglie York e Law, delle quattro generazioni che si succedono all’interno di un paesaggio flagellato da un’imminente catastrofe climatica, sembra così specchiarsi una caparbia fiducia negli esseri umani; a esprimerla con magnifica efficacia è un’ancora giovane Elizabeth Perry, voce testarda di un’umanità in grado di creare bellezza sebbene il mondo soffra anni senza estate, eruzioni vulcaniche, piogge torrenziali. Nella quieta risolutezza con cui Camilla Semino Favro, capace di un’interpretazione di prismatica intensità, ricorda al marito Henry Law – un Emiliano Masala in prodigioso equilibrio tra colpa e desiderio, tra orrore e compassione – come fu proprio durante il glaciale 1816 che Mary Shelley compose il suo Frankenstein, è condensato il nucleo stesso del testo di Bovell. Se da un lato la Storia è muta testimone di biografie, di vite ignare di guerre e conquiste, è alle singole storie di individui comuni che è affidato il compito di forgiare questa stessa Storia, di darle un senso comprensibile ex post, riconoscendo il disegno che una trama di scelte e un ordito di azioni hanno tessuto inconsapevolmente.
Mentre i carri armati sovietici soffocano la primavera di Praga, o mentre Margaret Thatcher impone il suo pugno di ferro sull’economia britannica, un piccolo gruppo di uomini e donne, di mariti e mogli, di madri e figli compiono una coreografia di gesti apparentemente privi di rilevanza: mangiano nel silenzio una zuppa di pesce, si svestono di un impermeabile, osservano la città dalla finestra. Non a caso “mentre” è l’avverbio che una voce off ripete ossessivamente all’inizio della pièce, quando l’ensemble entra nella scena disegnata da Carlo Sala: uno spazio neutro, abitato soltanto da pochi riflettori mobili e da un tavolo, chiuso da un fondale – realizzato da Rinaldo Rinaldi – su cui alcune videoproiezioni indicano l’anno e il luogo dell’azione. Attorno al tavolo – per Arendt simbolo stesso del «vivere insieme nel mondo» – le coppie di When the Rain Stops Falling si raccolgono, in città e tempi diversi, entusiaste o amareggiate, innamorate o spezzate dal dolore. Come in un giallo, la verità delle loro esistenze si comprenderà alla fine, negli ultimi istanti di un dramma circolarmente preannunciato dal prologo affidato a Marco Cavalcoli. A lui, solitario e disilluso abitante di Alice Springs in un piovoso 2039, spetta il compito di consegnare le tracce del passato al figlio: vestigia ormai incomprensibili, libri e oggetti ai quali avvicinarsi con il rispetto dell’archeologo e la commozione dell’erede. Ecco i reperti della bisnonna Elizabeth, del suo amore e della sua sconfitta di fronte alle pulsioni del marito; ecco il ricordo del prozio Glen, fratello della nonna Gabrielle, violentato e ucciso nel panorama di indicibile bellezza di Uluru; ecco l’alfabeto della devozione che il nonno Joe Ryan pronunciava alla compagna di una vita, ogni giorno più vicina all’oblio di sé stessa e del mondo; infine ecco i sogni di Gabriel Law, le promesse che prendono la forma di un viaggio agli antipodi del globo.
Lungi dal circoscrivere le tematiche arendtiane a mero sottotesto filosofico, l’australiano Bovell sembra voler dimostrare anche da un punto di vista formale la vertiginosa relazione che il perdono e la promessa intrattengono con lo scorrere del tempo della vicenda narrata, così come la loro ineffabile abilità nel modellarlo e sottoporlo a torsioni, a svolte impreviste. Diviso in ventuno scene, l’opera gioca con le cronologie e conduce al parossismo l’accademica distinzione tra fabula e intreccio, in un forsennato andirivieni tra il 1959 e il 2013, tra gli anni ottanta e un distopico futuro situato nel 2039. Tra questi piani temporali l’autore tesse una fitta maglia di citazioni e rimandi, di collegamenti che attraversano la drammaturgia e incatenano i personaggi a un destino predeterminato al punto da condizionare parole e movenze. In questo senso When the Rain Stops Falling, la cui prima messa in scena risale al 2008, si pone come una tragedia per un nuovo millennio, un’Orestea per un’età ormai secolarizzata nella quale il cielo, vuoto di divinità e gonfio di pioggia, sovrasta una stirpe di padri che abbandonano i figli, compiendo azioni di indicibile violenza e tracciando il punto iniziale di una linea di sangue e dannazione che attraversa inesausta gli anni e i territori. Eppure, anche in questa saga di Atridi contemporanei sembra possibile tramutare le Erinni in Eumenidi: e affidare a un Aeropago intimo il compito di pacificare le esistenze, forse anche gli elementi.
Accanto a questo recupero classico agisce però nella scrittura di Bovell una riflessione sul tempo squisitamente moderna: una postura che ne annienta le pretese diacroniche, ridotte a mera convenzione, suggerendo invece una sincronicità di accadimenti in origine distanti nelle epoche e nei luoghi. Ed è qui che interviene, come ulteriore elemento di uno strabiliante dispositivo di scrittura, un’istanza che non è più, invece, esclusivamente modernista: ciò che il drammaturgo di Perth propone non è tanto una decostruzione, ancora primonovecentesca, della linearità del tempo, quanto una sua continua, costante, di volta in volta immaginifica costruzione di esso, affidata ai talenti della promessa e del perdono. La scrittura di Bovell è colma di profondo rispetto ed empatia, scevra da qualsiasi giudizio: e Ferlazzo Natoli sembra in grado di amplificare questa postura, etica prima ancora che estetica, dirigendo un cast di eccezionale rigore nella non scontata missione di evidenziare, di nove personaggi, tanto gli abissi oscuri quanto le vette di carità.
Nel succedersi di sequenze dialogiche affidate sempre a un uomo e una donna – durante le quali il passato e il futuro prendono la forma di antenati e posteri, presenze silenziose chiamate a contemplare un hic et nunc puramente teorico – la regista romana, cofondatrice della compagnia lacasadargilla, compone una partitura di scene e controscene, di movimenti quotidiani capaci di squadernare pozzi di verità al di sotto della superficie del banale. La Storia è soltanto una lontana eco, come la pioggia che incessante accompagna le voci degli interpreti: grazie al pregevole disegno sonoro di Alessandro Ferroni, il rumore appare sorprendentemente diegetico ed extradiegetico, oggetto di una sofisticata spazializzazione che lo fa emergere al di là del palco, oltre la platea, oltre il tempo. Non c’è alcuna volontà di raccontare i grandi eventi, le battaglie o le scoperte che hanno costellato la seconda metà del Novecento fino agli anni Duemila: la cronaca comparirà nelle tavole sinottiche, in polverosi saggi, si svilupperà in documentari. Qui, il passato è il fantasma di un padre che incatena un figlio; qui, l’attualità è l’urlo straziante di Francesco Villano, un grido che piega il corpo di Joe. Di fronte all’interminabile crepitio delle gocce, ai rivoli di acqua e dolore che dal passato giungono fino a lui, resta tuttavia a Gabriel York l’umana e ciò nonostante soprannaturale possibilità di arginare il diluvio, sciogliere i nodi dei decenni trascorsi, inventare un tempo nuovo. Umile sovrano di un tribunale silenzioso, i cui giudici sono gli avi riuniti insieme attorno a un tavolo, Gabriel York annuncia finalmente, come l’arcangelo di cui porta il nome, una lieta novella: il perdono degli errori e delle piccole miserie, delle violenze e delle indecisioni; forse anche l’alba di un giorno di sole. When the Rain Stops Falling è una riconciliazione.
Alessandro Iachino
(ph: Sveva Bellucci)
When the rain stops falling – Quando la pioggia finirà
di Andrew Bovell
da un progetto di lacasadargilla
regia Lisa Ferlazzo Natoli
traduzione Margherita Mauro
con Caterina Carpio, Marco Cavalcoli, Lorenzo Frediani, Tania Garribba, Fortunato Leccese, Anna Mallamaci, Emiliano Masala, Camilla Semino Favro, Francesco Villano
scene Carlo Sala
costumi Gianluca Falaschi
disegno luci Luigi Biondi
disegno del suono Alessandro Ferroni
disegno video Maddalena Parise
produzione Emilia Romagna Teatro Fondazione, Teatro di Roma – Teatro Nazionale, Fondazione Teatro Due
con il sostegno di Ambasciata d’Australia e Qantas
Visto al Teatro Metastasio di Prato_febbraio 2020