La sedicesima edizione del festival Tramedautore, un osservatorio sempre attento alla contemporaneità, presenta quest’anno un focus misto su Paesi europei distanti fra loro (Norvegia, Germania, Macedonia, Montenegro, Italia), ma uniti dal drammatico filo rosso delle migrazioni. Particolarmente interessante è la sezione dedicata agli “Hybrid Plays”, cioè a progetti di “traduzione culturale”, momenti di incontro, fusione e voluta collisione fra prospettive mediterranee e nordeuropee. Ad inaugurare questi sguardi bifronti, è un dialogo Macedonia-Norvegia.

I lavori dell’autore macedone Dejan Dukovski sono profondamente segnati dalla tragedia della guerra nell’ex-Yugoslavia, considerata un buco nero della Storia in cui sono affondati per sempre speranze e ideali: di fortissimo impatto ad esempio La Polveriera del 1993, poi anche film premiato a Venezia. L’Accademia Nazionale delle Arti di Oslo ha scelto il suo testo sperimentale Who the fuck started all this  (Chi cazzo ha iniziato tutto questo), un affresco distopico di un’umanità alla deriva, reso attraverso i frammenti di incontri-scontri fra personaggi grotteschi, a metà fra il mondo di Beckett e la violenza di Sarah Kane.

L’idea era non solo di tradurre, ma anche di riscrivere Dukovski, e il compito è stato affidato alla giovane autrice norvegese Αgate Kaupang. Quali nuove alchimie si creano in virtù della distanza geografica, culturale e cronologica dal modello? Qual è la prospettiva di un’artista nata nel 1993, per la quale la guerra dei Balcani non è una ferita sanguinante? La Kaupang ha scavato nel testo, ricavandone temi archetipici per piegarli sull’oggi, ha riscritto delle scene e aggiunto altro materiale. Il risultato è un ibrido, che va alla riscoperta di quella porosità dialogica che esiste fra le opere teatrali.

Storie quotidiane, relazioni grottesche, idee esistenziali, tutto galleggia in un universo in disfacimento, dominato dall’incomunicabilità, dal sospetto verso chi è diverso, dalla violenza come misura del quotidiano, dai professor Phallus che millantano sapienza e perpetuano la gerarchia del potere.
La lingua è ellittica, bruciante e cruda: vomito, flatulenze, escrementi, sangue, sono il contorno della desolazione in cui siamo immersi, in un mondo che “è un cubo”, incapace quindi di rotolare, e che anzi, fermo su se stesso, distrugge ogni idea e bellezza. E se talvolta sembra di scorgere un angelo, che si ripara con le sue stesse ali dalla paura e dalla vergogna, è solo un miraggio evanescente.

Non mancano note di black humour balcanico, come il refrain “Ho bisogno di te”, pronunciato da innamorati stanchi e annoiati, frase di circostanza che ha perso il suo spessore e dà origine a un vortice elencatorio di similitudini stantie, dai toni anche macabri: “ho bisogno di te come per il morto è necessaria la tomba, per il soldato il suo fucile, per i rivenditori di armi la guerra”. Ogni condivisione emotiva, solidarietà, disinteresse, è stata risucchiata nel bisogno narcisistico di consumare l’altro, in un mondo solcato dai muri invisibili dell’incomunicabilità.

L’esperimento visto al Piccolo Teatro Grassi, con quattro giovani attori dell’Accademia Nazionale delle Arti di Oslo, è uno studio, con i pregi della forma aperta e la superficie ancora ruvida delle potenzialità da sviluppare. Alcune trovate sceniche sono già funzionali, come ad esempio il gioco insistito sull’antifrasi tra il livello dell’enunciazione, affidato a una lingua scarnificata, e la contemporanea gestualità (bolle di sapone, stratificazione di vestiti, scambio compulsivo di parrucche), e inoltre lo scambio dei ruoli uomo-donna, in una perenne recitazione frontale che allude all’impossibilità di comunicazione. Notevole lo sforzo fisico richiesto ai due attori maschi, impegnati in acrobazie e in costruzioni corporee precarie, che rinviano forse al sottotitolo Hurtling Stillness (immobilità instabile).

I momenti migliori sono quelli in cui la voce recitante, nell’algida musicalità del norvegese, si abbandona a quella che Umberto Eco chiamava “la vertigine della lista”: un elenco di oggetti, situazioni, emozioni, che si susseguono senza un ordine apparente, un accumulo che dovrebbe chiarire e invece confonde, fino all’akmé di uno scarto improvviso, quando le parole si avvitano intorno a esplosioni, brandelli di corpi e di Stati, forse ricordi sconnessi del trauma post-bellico. Sprazzi di memoria che tornano ad esempio nell’immaginario dialogo con un veterano della guerra ora in carcere, che confessa, con indifferenza mista a orgoglio e compiacimento, di aver stuprato e ucciso, in ottemperanza al macabro slogan “erezione e rivoluzione”.

Con il suo titolo rabbioso e provocatorio l’autore macedone previene l’ipocrisia benpensante, che cerca un responsabile per scagionare in realtà se stessa: qualcuno avrà scatenato la scintilla dell’orrore, basta scovarlo e lavarsi la coscienza. Ma questo Dukovski made in Norway ribadisce che “non c’è mai stato un inizio”, tutto è presente assoluto. Fatica inutile tornare indietro, indagare sulle origini e sui “colpevoli” o vagheggiare l’impossibile ritorno al prima incontaminato. L’ordine del nostro mondo cubico, bianco, azzerato di umanità, è sancito dal comandamento sempre attuale: “Chi non la pensa come te, uccidilo. Chi pensa, uccidilo”. L’oggi vive “l’immobilità che precipita”, prima dell’esplosione e del crollo.

Gilda Tentorio

 

Who the fuck started all this – Hurtling Stillness
di Dejan Dukovski
riscrittura in norvegese di Agate Kaupang
regia di Øystein Ulsberg Brager e Arturo Tovar
Visto al Piccolo Teatro di Milano nell’ambito di Tramedautore _ 17 settembre 2016