On stage, windows side by side in a row, and perhaps a few rocks big enough to sit on. Through one of the windows, a woman’s voice is heard singing the end of a prayer. Over this prayer, Hüso (12) and Esme (13) enter playing tag.

Windows si apre con una affermazione scarna. Questo è lo spazio della storia: una fila di finestre, forse qualche pietra grande abbastanza per sedercisi sopra. Una voce fuori campo porta una preghiera. Un ragazzino e una ragazzina, Hüso e Esme, entrano in scena giocando a prendersi.
Dalla prima frase, dal primo momento, Ayşe Bayramoğlu (Istanbul, 1980) posa come una pietra un’ambientazione immobile e introduce due personaggi, gli unici protagonisti di questa storia. Nello spazio scenico e drammaturgico di Windows non succede nulla. Sette brevi episodi raccontano altrettanti incontri dei due ragazzini, che avvengono sempre davanti alla fila di finestre con le pietre intorno. Davanti alle finestre Esme e Hüso non fanno molto insieme. Non giocano, non studiano. Parlano.
Guardano attraverso le finestre e si raccontano (ci raccontano) quello che vedono e attraverso questi racconti (le nostre finestre) ci arriva la vicenda. «Dai, sali e raccontami» è la formula che avvia le narrazioni.

La condizione umana di René Magritte (1935)

La storia è asciutta quanto l’ambientazione: Esme è poverissima, ha un papà disabile che vive su una sedia a rotelle e una sorella con un bambino appena nato, frutto, intuiamo, di un matrimonio combinato; Hüso è il figlio del mukhtar, il capo villaggio, è più ricco della sua amica e la sua famiglia ha una posizione importante. Ogni tanto sgraffigna del cibo dalla cucina e lo porta a Esme. I dialoghi tra i due ragazzini descrivono la vita della piccola comunità di cui non conosciamo il nome né la posizione geografica. Le aspettative delle ragazze sono minime. Lasciare la scuola, sposarsi, forse ricevere un regalo di matrimonio.
Attraverso questi racconti ascoltiamo con orrore la storia dell’emancipazione di Esme, che cerca ostinatamente di guadagnare dei soldi. La seguiamo mentre i racconti si fanno sempre più appannati e disturbanti e il gioco del narrare diventa scuro, sempre più scuro. Poi la storia sprofonda. Esme racconta: una donna-angelo le offre un riparo e uomini-re arrivano, la abbracciano, la baciano. In una trance stravolta ricorda due fiabe, due incontri, due rapporti sessuali e i soldi che le arrivano in mano. Ora può acquistare un vestito e può cucinare invece di chiedere gli avanzi della casa di Hüso.

È Esme a innescare i racconti, prima chiedendo a Hüso di raccontare cosa vede e poi, “scocciata” perché il ragazzo racconta male, prendendo lei stessa la parola: «I don’t like how you tell it. / You’re not a good story teller. Move, I’ll tell you» (Non mi piace come lo racconti. / Non racconti bene. Togliti, racconto io).
Hüso racconta male, Esme vuole fiabe vere, con re e angeli e ali. A metà opera Esme finalmente trova un lavoretto, distribuire volantini, ed è lei stessa a raccontare la storia del suo futuro.


Da Windows

Esme: Then I’ll go somewhere else.

Hüso: Where?

Esme: Somewhere else. (She starts playing with the flyers. She makes a window/a frame, then tells a story looking through it. Hüso interferes with her narration by trying to play a completely different game.) Way over there. There are birds: they land on people’s shoulders. There’s a king. The king takes one of these flyers. Because he doesn’t have anyone. He sits in his castle all day. He cheers when he sees me, and he invites me to his castle. The castle is huge. And the king’s eyes are also huge. He has hair on his head. He holds my hand; his hands are soft like cotton. He gives me a big room. There’s a closet in the room, it’s like a garden inside the closet. Colorful dresses, shoes… They’re all mine. There’s one that is bright blue. I pick it up and wear it.

Hüso: The king has to leave the room!

Esme: He’s waiting for me downstairs. At the dinner table. I go there wearing my blue dress. The heels of my shoes click and clack. There’s so much food. I taste everything. Yummy. Birds come inside through the window. They eat, too. The king shows me the window, I look out. I can see my sister’s house. The baby is now old enough to walk. My sister is smiling.

Hüso: How come the king knows your sister?

Esme: My sister is his neighbor. I yawn. Birds pick me up, fly me to bed and drop me in. I’m not cold. They embrace me.

Hüso: I’ll tell your father.

Esme: There’s no father there, there’s the king. He holds my hand, and we go out to the garden. So many people have arrived. He hands out my flyers to them. He hands out all of them. Whoever takes a flyer flies away like a bird. Because they like looking at the pictures. And then the king kisses me.

Hüso: Nobody would kiss you. You smell like shit.

Esme: I take a bath there, I smell like roses.


Windows è un testo esile, breve, leggero nella sua forma. Bayramoğlu appoggia su trenta pagine la parabola cupa di una bambina senza prospettive che si trova invischiata in un giro di prostituzione e che racconta questo percorso attraverso il registro raggelante della fiaba. Immaginando i problemi di una messa in scena, piano piano diventa chiaro che il testo, nel suo essere breve ed essenziale, pone alla regia un problema di rappresentazione complesso e su vari livelli. Propongo solo due esempi reciprocamente connessi: il tema del racconto e la questione delle finestre.

Bayramoglu sceglie il registro della fiaba e ci porta a credere che il racconto sia una sublimazione della realtà e che le parole, le storie e le narrazioni possano riscrivere i fatti. Quindi a un primo impatto le rivisitazioni di Esme sembrano un rifugio, una protezione che la ragazzina si costruisce per fronteggiare la sua vita. L’immaginazione la proteggerebbe dalla realtà di ciò che le sta capitando. Chi ascolta, d’altra parte, coglie l’ambiguità del meccanismo e sa che più la storia di Esme diventa immaginifica più espone la grandezza del trauma, la violenza dei fatti.
La regia dovrebbe avere consapevolezza di questo rovesciamento. Il filo che unisce immaginazione e salvezza, racconto e protezione, attraverso la mia coscienza di ascoltatrice si spezza e i racconti di Esme, invece che difendere e proteggere, la espongono e decretano la realtà assoluta e dolorosa della sua parabola di vita. Il racconto fiabesco e il lieve lirismo su cui esso si muove non hanno nulla di poetico, ma tutto di tragico. Non siamo nel luogo della parola simbolica della fiaba, ma in quello della parola tragica, nera, e il racconto sul futuro riportato sopra va riletto come una profezia macabra che, nel corso del testo, si autoavvera. Esme compie effettivamente un incantesimo, racconta il futuro che vuole, e questo arriva.

Immagine di locandina di Windows a La Mama (NY)

Da qui in poi perciò non assistiamo più a qualcosa che succede: tutto è già successo. La natura del testo diventa tragica, il danno è fatto, il destino segnato. Esme e Hüso potrebbero avere anche cinquant’anni. Ci confrontiamo con una tragedia senza soluzione, con un oggetto contundente che fa male e basta, che rifiuta o dimentica la parte della guarigione e della rinascita. I racconti che seguono, le fiabe di Esme, aprono una finestra sulla sua vita interiore danneggiata.
In questa ottica proprio le finestre, primo e unico riferimento d’ambiente nonché scenografico, diventano oggetti impossibili e cruciali. Nella storia di Esme racconto e sguardo sono fatalmente collegati: all’inizio le narrazioni che ci arrivano corrispondono a quello che i ragazzini vedono guardando attraverso le finestre ma dalla metà del testo in poi, quando Esme crea la sua finestra e racconta la sua prima fiaba, le cose cambiano e i racconti riguardano lei stessa e la sua storia interiore.
Le finestre di Bayramoğlu sono anche gli occhi dello spettatore, diaframmi speciali attraverso cui chi guarda e racconta viene guardato e ascoltato, architetture impossibili appunto, ma del tutto necessarie nell’ottica di una scrittura scenica. La finestra sembra assegnare il punto di vista: io guardo dalla finestra, io ho in mano la storia. Io sono protetta dalla finestra mentre osservo i fatti e sono protetta dal mio punto di vista mentre li racconto. Eppure questo effetto di protezione in realtà non esiste, l’idea che raccontando la propria storia sia possibile riappropriarsi della propria vita crolla e chi guarda (lo spettatore) si ritrova a sua volta potenzialmente esposto.

Una scena di Windows nella versione di Lloyd Jones a La Mama, NY, nel 2017 (foto/video: Rick Evertsz)

Windows mette in scena una narrazione dagli strani poteri: uno solo tra i racconti proposti si avvera (la visione di Esme sul futuro), gli altri compongono la cronaca nera di questo realizzarsi. Le fiabe di Esme, ossessionata dal raccontare bene, non riscrivono la sua storia e chi le ascolta si trova a una finestra affacciata direttamente sui suoi oscuri movimenti interiori. Attraverso un semplice problema scenografico (le mettiamo fisicamente le finestre? Quale forma devono avere, come devono essere orientate? Chi è fuori e chi è dentro? Chi spia e chi è spiato?) Windows pone una domanda sull’arte teatrale. Quando Esme racconta non sappiamo più dove si rivolge lo sguardo, non sappiamo più a cosa serve il racconto. Abbiamo solo una scena scarna, qualche sasso per sedersi, una fila di occhi che ci guardano.

Tolja Djoković


Il testo, grazie al progetto Fabulamundi, può essere richiesto gratuitamente con una mail a [email protected]