Il festival internazionale delle arti dal vivo IPERCORPO, giunto alla sua XVI edizione, ha proposto quest’anno come tema “La pratica quotidiana”. «Il titolo di quest’anno», scrive nella presentazione il suo direttore artistico Claudio Angelini, «nasconde un pericolo. Il diktat generalizzato è legato alla velocità costante del cambiamento, al ribaltamento immediato delle idee, dei metodi, degli sguardi. La cloaca comunicativa ha fame di strategie sempre nuove e in costante accelerazione. […] La pratica quotidiana come potente attrezzo di scoperta. […] Ecco le mura più solide. Ecco lo spazio realmente abitabile costruito nel tempo. Questa casa immateriale, parzialmente eretta, questo scavo archeologico al contrario, che di archeologico ha il tempo lento e la cura necessaria per far affiorare un universo fragile, è la cosa più solida e concreta di cui disponiamo. È, in definitiva, il vero deposito da custodire». Ed è su questo tema che propone un programma in forma di chiamata pubblica, per generare “una comunità istantanea” che abiti i luoghi immaginati per ospitare un coacervo di arte, performance e teatro, allenamento e didattica. I workshop ne costituiscono una solida base, una reale occasione di learning on the stage: momenti di condivisione e riflessione, di nutrimento e crescita, di ricerca e sperimentazione, di condivisione e verifica, da alternare per completezza a momenti ad alta valenza performativa con i gruppi teatrali ospiti del festival.
Il titolo lascia dunque individuare la necessità di rallentare, di tornare a scoprire nel quotidiano la base concreta di cui disponiamo, di contemplare il “già fatto” per soffermarsi a guardare avanti con maggiore chiarezza e propositività. Nel lavoro condensato in pochi giorni, privo di finalità legate allo spettacolo, si possono ritrovare le proprie radici arricchite da nuove possibili sollecitazioni offerte da verifiche collettive: i festival sono luoghi in cui la presenza residenziale delle compagnie consente un melange di formazione e visione, che completa il percorso di maturazione in workshop indirizzati ad addetti ai lavori e professionisti, che ritrovano una rara condizione di verifica personale ragionata, attraverso il confronto.
L’etimologia del sostantivo inglese workshop, ormai di uso e abuso comune, associa al termine “lavoro” la parola shop: letteralmente “bottega”: questa indica un luogo dove si apprende e si perfeziona un mestiere. Gli attori di tali consessi – organizzatori, esperti e allievi – mettono in campo tematiche rilevanti attraverso un approccio formativo-esperienziale che permette contaminazione. È questo il processo atteso, finalizzato a una simbiosi tra apprendimento e arricchimento; gli esperti, affiancando i partecipanti e condividendo le proprie professionalità e conoscenze, con modalità non autoreferenziali, avanzano nella propria ricerca e nella costruzione di un metodo. L’osservatorio qui proposto approfondisce due workshop tenuti presso EXATR a Forlì, evidenziandone il ruolo che assumono nella struttura dei festival, nella formazione e nella successiva produzione degli spettacoli.
Rivoluzionare il concetto di tempo.
Mi fermo e non faccio nulla. Non succede nulla. Non penso a nulla.
Ascolto lo scorrere del tempo. Questo è il tempo. Familiare e intimo.
Il precipitare di secondi, ore, anni ci lancia verso la vita, poi ci trascina verso il niente… […]
La sua nenia ci nutre, ci apre il mondo, ci turba, ci spaventa, ci culla.
Carlo Rovelli, L’ordine del tempo, 2017
In Fuori dal dominio del tempo (6-8 giugno 2019) della compagnia Muta Imago, professionisti provenienti da diversi percorsi formativi si sono misurati in una “sospensione temporale”. Performer di varia età ed esperienza si sono messi in gioco sulle sollecitazioni drammaturgiche di Riccardo Fazi, condotti da Claudia Sorace per la traduzione scenica della tematica TEMPO. Già con Timeless, sviluppato la scorsa primavera con gli attori della Scuola di Perfezionamento del Teatro di Roma, Muta Imago aveva iniziato la sua indagine sulla natura del tempo, entità su cui si descrive il mondo e si misurano i suoi cambiamenti: una riflessione su come “estendere e confondere le sue direzioni”, su come costruire una drammaturgia a partire dai presupposti della contemporaneità dei tempi e su come comunicare l’esperienza di un mondo senza tempo, attraverso un racconto di immaginazione ed esperienza, tra memoria ed identità.
La ricerca che Muta Imago trasferisce nel workshop porterà alla realizzazione di due performance. La prima LIMINAL OPERA, a cui ho assistito in forma di prima prova nello spazio La Pelanda del Mattatoio di Roma (10/11 luglio 2019) è un percorso sensoriale che pone lo spettatore al centro di un’esperienza liminale al confine tra sonno e veglia, tra conscio e inconscio, con l’obiettivo di condurlo a sperimentare le possibilità di una percezione “altra” del tempo. Si tratta di un’inedita installazione esperienziale attraverso tre spazi fruibili in sequenza propedeutica, a metà tra performance e concerto dal vivo, che pone al centro il corpo e la mente dello spettatore; una partitura visivo-sonora il cui scopo è, nelle parole di Fazi, restituire «la vertigine della percezione dello spazio-tempo così da riportare allo stato di meraviglia quella particolare condizione naturale che chiamiamo esistenza».
La seconda, sul quale il gruppo lavorerà in autunno, porterà alla realizzazione di un vero e proprio spettacolo costruito su una drammaturgia non lineare, “un collage” supportato da un linguaggio performativo che possa rappresentare la “percezione del tempo”, confondendone gli aspetti cronologici. «Se la memoria che forma la nostra identità è costituita di tutto quello che rimane attraverso il tempo allora cosa succede alla nostra identità se i parametri temporali a cui siamo abituati vengono invertiti, mescolati o sovrapposti? Cosa significa provocare in scena i limiti della nostra concezione e percezione abituale del passaggio del tempo?». Da queste parole tratte dalla presentazione della performance, ancora non ufficiale, scaturisce il senso della proposta laboratoriale di Muta Imago, che ha l’obiettivo di riversare passato e futuro in un “presente scenico” che dia senso a un nuovo rapporto tra noi e il tempo.
La richiesta alla base del lavoro deriva da questa ricerca in progress che, indagando la dilatazione temporale, l’eco delle azioni, il riverbero dei ricordi, tenta di tradurre tali elementi immateriali in azioni per una possibile e imprevedibile scrittura scenica. Questo prodotto – quasi deverbalizzato e risolutamente non narrativo – tenta di imbrigliare accelerazioni e rallentamenti, intuizioni e ripetizioni di movimenti, che derivano dai ricordi, per creare repertori, azioni ripetute tra play e rewind, raggruppamenti e assoli, soluzioni convenute e improvvisazioni. Lavorando sugli aspetti emotivi di un vissuto personale, i performer fissano nella mente le esperienze, conservandone i ritmi temporali, estendendoli, mantenedoli vivi, anche in azioni di “ri-percorso” a ritroso, trasmettendoseli tra loro, “passandoseli” in un continuum che mantenga viva la performance, tra tensione e desiderio. Si annulla il bisogno di un racconto, si manomette il sistema degli elementi recitativi e si costruisce un repertorio di incontri che annullando l’apice dell’azione – il desiderio – eviti di “smorzarla”, consentendo poi di “riprenderla” ancora, “ravvivandola”. La provocazione è superare i limiti concettuali e percettivi del trascorrere del tempo, uscendo dalle sue regole, agitandolo e spostandolo attraverso uno studio teorico-applicativo, con una “comunicazione selettiva” e una continua modificazione della performance attraverso la cifra del proprio linguaggio individuale.
Interessante un lavoro condotto en plein air utilizzando le ombre portate (ad esempio l’ombra di un muro esposto al sole), dove le variabili sono controllate nello scorrere del tempo attraverso parametri deboli e naturali (ad esempio attraverso la coincidenza della linea d’ombra con le linee presenti sul palmo di una mano): “quel che sembra fermo in realtà si muove”.
Colore, dalla musica alla danza.
Continuo a cercare di far progredire la musica,
cambiando i colori. È la mia natura.
Miles Davis
Gruppo nanou ha tenuto tra il 2018 e il 2019 un laboratorio coreografico itinerante per danzatori professionisti: Alphabet. Un ciclo di incontri residenziali monografici che hanno costituito un’articolata opera di scavo analitico nei prodromi della propria ricerca, consentendo l’elaborazione e la successiva scomposizione di scritture coreografiche che, secondo un approccio sistemico, consentono la lettura e la modificazione dei prodotti e dei processi compositivi. Gruppo nanou ha così tentato un’analisi e una rifondazione della propria grammatica in termini coreutici, ripercorrendo il già fatto e distillandone l’essenza, dedicandosi soprattutto al corpo e al suo ruolo di motore di una composizione astratta.
Alphabet: il colore si fa spazio (11-13 giugno 2019), è il workshop incluso in Ipercorpo 2019 che, proseguendo gli appuntamenti che si sono alternati in molte città italiane nel corso di due anni, ha trasferito in nuce gli esiti della ricerca sull’opera di Miles Davis, condotta attraverso una appropriazione del suo metodo compositivo e una restituzione coreografica. Questo lavoro ha condotto a una partitura che relazionando suoni, luci, spazi e corpi è diventata WE WANT MILES, IN A SILENT WAY, uno spettacolo (debuttato in Italia il 26 giugno scorso al Ravenna Festival, dopo il debutto internazionale a La Mama, New York, il 26 aprile 2019) che unisce i titoli di due album che insieme costituiscono “una perfetta dichiarazione di intenti” (Alessandro Fogli, Corriere di Romagna, 2/7/2019).
Miles Davis è considerato fra i più importanti musicisti jazz. Le sue composizioni, nate con la collaborazione di diversi arrangiatori, vogliono incorporare tecniche tipiche della musica classica, quali la polifonia, l’unisono e il contrappunto, per poi approdare al genere fusion, in grado, secondo alcuni critici, di influenzare altri generi musicali. Come osserva Marco Valerio Amico «Dal vivo (Davis, n.d.r.) compiva azioni performative, come lasciare il palco per ascoltare a distanza il suono e tornare determinando un cambiamento, una deterritorializzazione vera e propria dell’azione sonora in atto, dettata dalla sua presenza o assenza».
Tutto ciò è tradotto da gruppo nanou in forma danzata, sottraendo inizialmente gli aspetti caratterizzanti (la tromba); metabolizzando in tensioni e spazi, sostituendo agli strumenti musicali i corpi, in una continua metamorfosi di colore. Questa è attuata integrando i risultati di una ricerca sul cromatismo che – con l’uso di LED e materiali scenici innovativi – altera la percezione dello spazio variandone illusoriamente assetto e profondità. Procedendo per “improvvisazioni ordinate” che si svolgono in un “tempo circolare”, concetti tipici del modus operandi di Davis, che registrava in studio le improvvisazioni per poi ricomporle, si è operato un trasferimento alla danza attraverso un metodo in cui gruppo nanou ha ritrovato i propri stilemi e la propria identità coreografica.
È proprio questo lo spunto del workshop: i movimenti dei corpi, inizialmente, agiscono su un tappeto sonoro di rumori e suoni per poi passare, nella fase finale, alle note del musicista. I partecipanti progrediscono “cambiando i colori”, qui tradotti in tensioni e porzioni di spazio occupato; si tratta, in questa occasione, di professionisti, che trovano infinite possibilità di sperimentazione estrema delle loro possibilità espressive, in un banco di prova dove l’apprendimento è incrociato ad una scrittura coreografica ibridata dai percorsi degli altri, in un mutuo nutrimento.
Si elaborano “storie labili” in compagnia di altre persone, condividendone le pratiche e i linguaggi, consentendo al danzatore la scoperta di diversi approcci e possibilità di approfondire la preparazione atletica, l’opportunità di offrirsi come autore e, nel rispetto dell’autonomia, lo stimolo a scoprire le proprie qualità arricchite nel patrimonio. Obiettivo dunque è il perfezionarsi, trovando nel lavoro collettivo i termini dell’”esattezza”, in territori diversi dalla solitudine, passando ad una fase di verifica del proprio linguaggio, da un regime di “efficienza” ad uno di “efficacia”, come sostiene nanou.
Questi laboratori, all’interno dei quali si è costruito materialmente qualcosa su concetti di tempo e di spazio, sono da considerare vere officine creative, dove idee e attività si elaborano nella realizzazione di un risultato concreto, un prodotto materiale, il cui processo di evoluzione proseguirà per passaggi in tempi più lunghi, a partire da quel nucleo nato in tempi brevi e densi nel luogo della contaminazione: il workshop.
Vittorio Fiore