di Carolina De La Calle Casanova
visto al Piccolo Teatro Radio di Meda (Teatro in-folio)_ 15 dicembre 2015
nell’ambito del Premio Sonia Bonacina
Una casa vecchia maniera, come se ne trovano a tutte le latitudini: merletti bianchi sui tavoli, cornici argentate, ritratti di volti che non ci sono più, poltrone logore che ne hanno viste tante. E poi lei, Zia Severina, intenta a parlare al vuoto in un inconfondibile e affettuoso lessico famigliare. È un’anziana un po’ svitata, che si rivolge ai suoi morti? Oppure c’è un nipote, nascosto da qualche parte, che dalla platea non vediamo?
Ed è qui, nell’orizzonte di una quotidianità semplice e ordinaria, che si colloca la storia di mafia scritta e diretta da Carolina De La Calle Casanova, dal titolo Zia Severina è in piedi. Niente squadre di polizia, niente stragi, niente grandi nomi già entrati nell’empireo degli eroi: siamo alle porte di Milano, quartiere Niguarda, in un condominio quasi interamente di proprietà della ‘ndrangheta. Gli inquilini se ne sono andati uno a uno, naturalmente, come animali che si allontanano per lasciare posto al branco più aggressivo. Ma Zia Severina no, non vuole spostarsi, è ancora in piedi: ecco perché le tocca convivere con la presenza invisibile e insidiosa di uno sgherro (in gergo ‘celletta’) che toglie il sonno, mina le certezze, avvelena la vita con la paura. Ma di fronte alla sopraffazione – ed è questo uno degli aspetti più riusciti e sorprendenti della drammaturgia – la donna reagisce con l’unico linguaggio che conosce, quello dell’accudire, dell’accogliere, del compatire. Ecco che il carnefice ottiene persino un nomignolo affettuoso, Mongolfiera, e diviene l’interlocutore al tempo stesso reale e immaginato di un ininterrotto flusso verbale (che pecca forse di una eccessiva uniformità di ritmo). Allo spettatore il compito di accedere a un livello sempre maggiore di consapevolezza: al divertito spaesamento dell’inizio, subentra la coscienza del sopruso in atto e poi l’inevitabile empatia.
Il testo, basato sul romanzo-inchiesta Alveare di Giuseppe Catozzella, sceglie di raccontare un aspetto poco noto tra quelli già entrati nella mitologia mafiosa di serie e film, ed è ispirato a vicende e personaggi reali. A incarnare Zia Severina è la brava Valentina Scuderi, abile a trasformare il suo corpo giovane in un organismo sofferente e affaticato, e a raccontare con parole masticate a mezza voce la solitudine di chi osa resistere. Perché è umano, ancora prima che politico, il nodo dello spettacolo: all’accuratezza dell’indagine del caso, alla forte connessione con i luoghi ‘caldi’ della ‘ndrangheta settentrionale (molte volte lo spettacolo è stato rappresentato proprio a Niguarda) fa da contraltare uno sguardo non moralistico sulle possibili declinazioni di violenza e sopportazione, un interesse laico sulle dinamiche psicologiche di chi è a lungo sottoposto a pressioni. Che volto ha il male? E come reagiamo quando ce lo troviamo davanti? Diviene allora un vero e proprio ‘eroe’ Zia Severina: esempio di rifiuto netto e misurato al ricatto, archetipo dell’essere umano che sa opporsi alle forze che lo sovrastano.
Maddalena Giovannelli