Per età e mestiere ho visto molte messe in scena del teatro antico, dalle più artigianali alle più sofisticate. Negli anni sono diventata insofferente per spettacoli d’occasione e di pura convenzione, montati senza un’idea interpretativa, neppure debole, e talvolta, nei casi peggiori, con grande dispendio di mezzi tecnici e di effetti speciali a camuffare il vuoto di pensiero. Da Le Baccanti di Leonardo Lidi – presentate al Festival di Teatro Antico di Veleia – sono uscita con la buona e rara sensazione di aver visto uno spettacolo ben pensato e ben realizzato, capace di far vivere il testo antico senza forzarlo, di smuovere emozioni, di porre domande, di sorprendere un pubblico eterogeneo di non addetti ai lavori.

Le Baccanti di Euripide sono una drammaturgia ad alto rischio. Forse la più difficile da portare in scena, tra i testi tragici conservati del V secolo. A differenza di altri testi costruiti su vicende umane, fin troppo umane anche se proiettate nei miti senza tempo e abitate dagli dèi, e incentrati su personaggi di forte e trasgressiva umanità, Le Baccanti sfidano tutte le regole della verosimiglianza. L’umano e il divino in questa tragedia non interagiscono, ma si fondono. Il personaggio di Dioniso, il protagonista, all’entrata in scena spende le prime parole per presentarsi come figlio di un dio, di Zeus, arrivato a Tebe sotto le mentite spoglie di un suo sacerdote. Dice di provenire dall’Asia con un seguito di donne adepte del suo culto, di avere raggiunto Tebe per prima tra le città della Grecia, per introdurvi i riti segreti a cui ha già iniziato le donne spingendole tra i boschi del Citerone, fuori dalle case e dalla città, distanti dai ruoli femminili. Dice infine, con un salto inatteso di piano, di essere lì per rivendicare la sovranità sulla città di Tebe affidata dal vecchio re Cadmo al giovane figlio di sua figlia Agave, Penteo, che rifiuta di riconoscerlo come dio e lo combatte.

foto Negri

Chi era questo Dioniso per gli spettatori, per quelli di Atene dove la tragedia fu rappresentata postuma insieme con l’Ifigenia in Aulide, nella trilogia vincitrice al concorso del 405? E chi era per i Macedoni, tra i quali, ospite alla corte di Archelao, Euripide aveva composto la drammaturgia? E chi è ancora, questo Dioniso, per noi? È il dio degli eserciti che, in forma umana, si predispone a imporre la sua religione con la guerra? È il dio della seduzione, il dio che sorride e ride, che incanta e stordisce, che può rigenerare o straziare coloro che incontra? O è il principe impegnato in un conflitto dinastico con il cugino Penteo, erede del nonno Cadmo?
Il Dioniso di Euripide sfugge a qualunque presa, continuamente spostandosi tra il divino, il soprannaturale, e il troppo umano della battaglia per il potere, manifestando una potenza, dynamis, superiore alla forza, kratos, come cerca di spiegare a Penteo il vecchio Tiresia con toni da teologo (v. 310). È la dynamis che, nel corso dell’intreccio tragico, fa crollare il palazzo e la logica gerarchica di Penteo, è l’energia della metamorfosi con cui il dio, imprigionato, spezza le catene e si ripresenta in figura di toro.
Nel suo nome – lo racconta il primo messaggero – le donne di Tebe, sui monti, in rigorosa sobrietà, allattano cerbiatti e cuccioli di lupo e fanno sgorgare acqua, vino, latte e miele dalla terra e dalle piante, inaugurando una sorta di età dell’oro, in un’armonia irenica e feconda, alternativa all’ordine politico e alle sue ragioni. E ancora nel suo nome e a salvaguardia dei riti segreti, le donne precipitano nella violenza estrema e cruenta dello sparagmos, pronte a smembrare a mani nude gli animali e gli uomini che le spiano nascosti tra gli alberi della montagna. All’ombra di Dioniso, la dolcezza materna del latte e la gioia selvaggia del sangue e della carne cruda coesistono e fluiscono l’una nell’altra.

La tragedia è, e doveva essere anche all’origine, un enigma oltre che un capolavoro drammaturgico. Un’opera di fortissima e profonda coralità, dove tuttavia la duplice coralità – quella del Coro di Baccanti asiatiche, che interagisce sulla scena con il dio nella battaglia contro Penteo, e quella delle Baccanti tebane, attive nel fuoriscena, sulla montagna, spiate e raccontate nella celebrazione dei riti – include il personaggio protagonista e nel protagonista portentoso trova la sua ragion d’essere e la sua forza sconvolgente. Un’opera che nella tensione costante e irrisolta di umano e sovrannaturale, di verosimile e meraviglioso, di logos e mistero, continua a essere un banco di prova per le tecniche registiche e attoriali oltre che una provocazione sui temi dell’alterità e dei passaggi culturali.

foto: Negri

Nella cultura teatrale italiana resiste ancora la memoria della messa in scena nel marzo del 1968, alla Sala Duse di Genova, delle Baccanti tradotte da Edoardo Sanguineti, in cui Luigi Squarzina giocava sulla contrapposizione dei costumi, formale e d’ordinanza quello di Penteo, informali, succinti e fioriti quelli delle coreute Baccanti con chiara allusione alla contemporanea controcultura hippie, ai figli dei fiori e alla loro contestazione delle istituzioni e dell’establishment in nome della pace e dell’amore. Ma fu negli anni Ottanta, per il Festival di Delfi del giugno 1986, che la rappresentazione di Baccanti segnò un punto di non ritorno con la straordinaria operazione di Theodoros Terzopoulos che nello studio della tragedia e nella preparazione dello spettacolo fece convergere le più significative memorie ed esperienze della sua vita: la cultura popolare e nomade del Nord delle Grecia in cui era cresciuto e le lezioni dirompenti di Artaud, di Brecht, di Grotowski, apprese presso il Berliner Ensemble, dove aveva conosciuto Heiner Müller e avviato con lui uno scambio che sarebbe continuato in Grecia. Per Terzopoulos, le Baccanti erano state l’occasione per riportare il testo sui luoghi dell’origine, là dove Euripide lo aveva composto, là dove egli stesso aveva trascorso l’infanzia e l’adolescenza in una famiglia di esuli. E la preparazione dello spettacolo coincise anche con la fondazione del suo teatro, l’Attis, con la prima esposizione del suo metodo e con la prima volta del tema della pseudo alterità tra Greci e Barbari che sarà il suo tema distintivo fino all’epocale messa in scena dei Persiani di Eschilo, a Istanbul nel gennaio 2006, per una coproduzione greco-turca e contro l’opposizione tra Oriente e Occidente.

Anche il luogo in cui ha operato Leonardo Lidi sembra inventato o artificialmente costruito per Baccanti: il foro dell’antica Veleia, tra resti di colonne e pietre, può rievocare la città di Tebe sulla quale degradano le colline alberate allusive alle pendici del Citerone. La tragedia prende forma e vita all’antica, con estrema sobrietà di mezzi. In scena sono tutti giovani, i quindici attori e il Coro, selezionati per il laboratorio teatrale promosso dalla Bottega XNL – Fare Teatro sul bel progetto, insignito quest’anno del premio Radicondoli, di Paola Pedrazzini per la Fondazione di Piacenza e Vigevano.
Lidi affronta con mosse sicure la complessità di Dioniso, il personaggio protagonista, e la varietà delle relazioni che si intrecciano tra i personaggi e tra i personaggi e il Coro. Una giovane attrice, la sorprendente Maria Teresa Castello, avvia lo spettacolo muovendosi in solitaria nello spazio scenico e presentandosi come il dio Dioniso di cui il rapper Segun Aina Tomiwa Samson completerà la storia. Il suo corpo di bassa statura, tondo, coperto da una tuta rossa infantile dai calzoncini corti su scarpe da ginnastica, appare asessuato. I movimenti a scatto, quasi da robot, il fraseggio spezzato, la voce sintetica, lo sguardo sbarrato che a tratti si punta sul pubblico come a volerlo catturare e la risata metallica sottraggono il personaggio a ogni tentazione di realismo e lo iscrivono in una dimensione altra: nell’ingenuità infantile e ludica? Nella follia intrinseca al dionisismo? Si scoprirà in seguito di cosa è segno questa strana creatura. Con l’arrivo di un bel giovane biondo (Pietro Savoi), dai capelli mossi, dalla pelle chiara e femminea, dallo sguardo intenso e dalle battute ambigue in vis à vis con Penteo (Fabrizio Costello) si scoprirà che il rosso spiritello prologante è la faccia fantastica, sovrannaturale e onirica di Dioniso, di cui l’attore prestante incarna la faccia verosimile, umana e seduttiva.

foto: Negri

Lo sdoppiamento di Dioniso non è nuovo nella resa teatrale. Vi era ricorsa recentemente anche Emma Dante, portando in scena al teatro India di Roma nel 2019 il saggio dell’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica Silvio d’Amico. Ma è il particolare sdoppiamento introdotto da Lidi a meritare attenzione, a disorientare dapprima e a orientare poi le aspettative del pubblico. Lidi rinuncia allo sdoppiamento prevedibile del maschile e del femminile che lascia intravedere compresenti sia nella straniante presenza dell’inizio sia nella versione umana di Dioniso che prima spaventa e poi affascina e irretisce il giovane sovrano. Dioniso e Penteo, due giovani antagonisti in due incontri diretti: due scene magistrali di relazione in cui è sempre Dioniso a condurre il gioco, prima per sedurre il suo rivale, poi per dominarlo nello scambio delle parti, fingendosi servo e travestendolo con le sue mani, femminilizzandolo nelle vesti rituali da baccante con la promessa di introdurlo ai riti montani e con la determinazione dichiarata di esporlo al pubblico ludibrio dei Tebani. Cadmo (Riccardo Livermore) e Tiresia (Alessandro Ambrosi) sono due vecchi complementari e complici che hanno attraversato la vita e acquisito saggezza, sebbene Euripide li abbia immaginati e Lidi coltivati come due freaks: Cadmo, il vecchio re che ha rinunciato al potere, ma che del potere conosce la necessaria ipocrisia e il cinismo con cui consiglia il nipote ad accogliere comunque Dioniso, anche senza credere ai suoi miti; Tiresia, l’indovino cieco che vede in anticipo lo scacco rappresentato dai culti misterici e dalle comunità a essi legate per la razionalità le società politiche in declino.

Lidi cura con grande efficacia i pas de deux delle contrapposizioni e delle affinità disseminate nella drammaturgia di Euripide. E ne aggiunge una finale e struggente. Non solo Agave, al momento del riconoscimento, crolla in deliquio accarezzando la testa di suo figlio che aveva scambiato per un giovane leone. Anche Dioniso, il Dioniso biondo, stringe a sé quel che resta di Penteo, il rivale che scientemente ha avviato alla distruzione e di cui forse si è innamorato, come il carnefice può esserlo della propria vittima. Il Coro, nei costumi di un corpo di cheerleader – un top e un tutù, a righe bianche e blu – accompagna e dà risalto alle scene a due dei personaggi in tragica tensione tra loro. Ma anziché esasperare i toni tragici, il Coro danza accompagnato da ritmi e strumenti contemporanei producendosi in coreografie, curate da Riccardo Micheletti, che generano festa. Una festa popolare e collettiva, come dovevano essere i grandi concorsi dionisiaci di primavera, invece che rito di cui insistono a parlare molti cultori del teatro tragico antico. Ma ci sarebbe ancora spazio, nella nostra contemporaneità, per la messa in scena di tragedie che pretendessero di ripresentificare il sacrificio originario invece di dispensare gioia – come vuole convintamente Lidi – nell’atmosfera pop delle feste che da secoli si sono sostituite e tengono il luogo dei riti già arcaici nella polis del V secolo? La scommessa di Lidi è importante e, a mio modo di vedere queste sue Baccanti, già in gran parte vinta, grazie anche all’ottima revisione drammaturgica e asciugatura del testo euripideo operata da Francesco Halupca.

Anna Beltrametti


in copertina: foto Negri

da Euripide
adattamento drammaturgico di Francesco Halupca
regia Leonardo Lidi
costumi Aurora Damanti
movimenti Riccardo Micheletti
con Alessandro Ambrosi, Ilaria Campani, Teresa Castello, Fabrizio Costella, Simona De Leo, Riccardo Livermore, Anna Manella, Martina Montini, Carolina Rapillo, Caterina Sanvi, Pietro Savoi, Tomiwa Samson Segun Aina, Caterina Tieghi, Nicolò Tomassini, Dalila Toscanelli
spettacolo realizzato nell’ambito del progetto speciale Bottega XNL – Fare Teatro
ideato e diretto da Paola Pedrazzini
per Fondazione di Piacenza e Vigevano
produzione Fondazione di Piacenza e Vigevano e Festival di Teatro Antico di Veleia